Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud, in mostra al museo Madre fino al prossimo 8 novembre, dà voce e corpo alle aree periferiche, ai territori fuori portata, alle prospettive dimesse. E a questi spazi restituisce centralità: urbano, rurale, periferico, industriale, extraterritoriale e corporeo; sei sezioni, sei diverse declinazioni dello spazio sono rappresentate e percorse dalle opere di cinquantacinque artisti italiani e internazionali. A cura di Kathryn Weir, la mostra è un’interpretazione artistica delle aspettative e delle conseguenze dei cambiamenti sociali degli ultimi cinquant’anni: l’urbanizzazione, lo svuotamento delle campagne, la creazione delle periferie urbane, le lotte contro le restrizioni del corpo. Le dinamiche soffocanti del neoliberismo hanno lasciato alienazione e degrado dove promettevano progresso ed emancipazione, ma l’arte ha saputo germogliare in queste realtà, facendosi pervasiva resistenza e possibilità d’alternativa. È questa risposta alle distopie liberiste che la mostra vuole documentare, criticando e raccontando, decentrando lo sguardo e aprendo squarci di bellezza, canali espressivi che parlano di un desiderio diverso.
«Supernapoli, l’insediamento inconscio, la città sovrapposta, la metropoli che si muove entrando e uscendo dal corpo che la ospita. Tutto per impedire alla realtà di stabilire una supremazia sul presente, restituendo all’utopia il suo diritto ad esistere, come prassi democratica nel pensiero quotidiano» scrive Cherubino Gambardella a proposito del suo collage Supernapoli (2014): l’anima ulteriore, la rimanenza indescrivibile che Napoli possiede, e di cui lascia indizi a chiunque la osservi, prende vita in una giustapposizione di immagini, in un alternarsi di tratti, che si moltiplicano caotici, restituendo la sregolata irriducibilità della città, che si muove e fugge, come dice l’artista, senza lasciarsi intrappolare in un luogo. “Supernapoli” è lo spazio dell’utopia, è uno spazio urbano che lascia tante feritoie aperte verso i non-luoghi dell’immaginazione. È nel rapporto mai definitivo tra ambiente e intervento umano che fiorisce la possibilità di un’alternativa, nella sua disponibilità a riconfigurarsi, a rimettere a fuoco gli elementi del paesaggio. Lo dice bene Eugenio Tibaldi, che su una delle tavole di Anthropogenic Herbarium scrive che «the infrastructure cannot exempt itself from a relationship with the aesthetics. And it is in its fragility of the unfinished that it manages to challenge time and space in new possible instances of adaptation». Gli acquerelli rappresentano piante che si snodano sui quartieri di Addis Abeba, sovrapponendovisi. Sono come ramificazioni rizomatiche, che abbracciano e includono le aree periferiche, in un invito alla creatività, alla disponibilità al cambiamento. È proprio la relazione fruttuosa tra centro e “aree periferiche” – nella più ampia accezione possibile – la condizione utopica messa a fuoco dalla mostra, un rapporto partecipato che ancora non ha luogo di attuazione, se non nell’arte. Di questo rapporto sentiamo l’assenza ingombrante, un’assenza che prende forma concreta nella performance Legarsi alla montagna di Maria Lai, che nel 1981 coinvolse gli abitanti di Ulassai, in provincia di Nuoro, in un’opera d’arte collettiva: con circa 27 chilometri di nastri di stoffa celeste, passati di mano in mano, di balcone in balcone, in mezzo a folle di bambini, tutte le strade, le case, porte e finestre furono legate insieme e, sul finire della performance, al monte Gedili. Una reinterpretazione artistica di un’antica leggenda, quella di una bambina sopravvissuta ad una frana grazie ad un miracoloso nastro celeste, che diviene un rito, una pratica per ristabilire il legame fondativo con la montagna e il suo ambiente. È l’ambiente, infatti, a diventare protagonista di un tentativo di restituirgli centralità: è un altro degli spazi “periferici” ad essere stati lasciati sullo sfondo dallo sguardo neoliberista e antropocentrico. Nel 1990 l’artista John DiLeva Halpern visse per dieci giorni con diecimila piante in una struttura di vetro sigillata, respirando una volta al minuto, per sperimentare e performare l’interdipendenza umana con l’ambiente. «Evenings were challenging, as at sunset no more oxygen was available from the plants and I had a hard time sleeping due to the thinness of oxygen and some anxiety. In the mornings when daylight began, it felt as though an oxygen field was suddenly born. On the day I left the BREATHSCULPTURE, my first breath of outside, oxygen rich air almost choked me. It was then that I genuinely felt my lungs and the trees outside the box were one continuous system». Gli alberi e i polmoni, un sistema continuo, senza poli predominanti. Di questa orizzontalità, che decentra lo sguardo umano, racconta anche Salvatore Emblema, che ha indagato le proprietà estetiche degli elementi naturali, disponendo pietra lavica su una tavola di legno.
Il decentramento di prospettiva prosegue nella sezione dedicata alle extraterritorialità – «spazi extragiudiziali, liminali e di confine […] in cui si incrociano vuoti etici, politici e sociali» – con, tra le altre opere, Orizzonte di Francesco Arena, che riproduce la linea di terra visibile in lontananza agli occhi dei migranti, in un ribaltamento del punto di vista che siamo abituati ad adottare. Sulla linea di un rapporto con l’Africa si innestano anche le opere dell’artista ghanese Ibrahim Mahama, che in Red Rivers e Garden of Eden sovrappone immagini dell’impianto siderurgico di Bagnoli con cartine dell’Africa occidentale, da cui proveniva parte del materiale impiegato: nel “vuoto etico” lasciato dal neoliberismo c’è spazio per la distruzione, per lo sversamento di rifiuti tossici. La storia dell’impianto è, tra l’altro, documentata dalle fotografie di Mimmo Jodice e Raffaella Mariniello, sotto il cui sguardo lo spazio industriale sembra trasformarsi in un paesaggio alieno, tagliato da ombre oscure e bagliori freddi. È, infine, nello spazio del corpo che tutte le contraddizioni si incrociano e si riassumono, sui corpi dolenti e bistrattati di chi viene lasciato indietro dal progresso, o di chi, in questo “progresso”, vede il proprio corpo risignificarsi, prendere direzioni autonome ed esproprianti. Betty Bee è, tra le altre, portavoce della condizione femminile nel mondo contemporaneo. Con alle spalle una dura storia di violenza, l’artista napoletana ricomincia dal proprio corpo, di cui prende possesso trasformandolo e performandolo. È così che sul suo corpo maltrattato, che rinasce e si espone, quel che è periferico diviene centrale, soggetto di un’alternativa possibile.