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«Mi chiamo Giuseppe e sfratto le famiglie»

sfratti incolpevoli

Visita almeno cinque case al giorno e ha il compito di mandare via le famiglie non in regola. Ora, ha deciso di raccontare cosa prova ogni giorno.

75 mila sentenze di sfratto ogni anno. In mezzo, ci sono: pignoramenti di stipendi, conticorrenti, mobili. Direttori di banche rassegnati. E ufficiali giudiziari un po’ incompresi. Uno di questi è Giuseppe Marotta, autore di Sfrattati (Corbaccio, 15 euro). Classe 1966, nasce a Pompei e finisce a Milano con una laurea in Scienze Politiche e un posto fisso arrivato tra un concorso e l’altro. Diciassette anni di carriera (più della metà dei suoi colleghi oggi è donna), almeno cinque case visitate al giorno e una passione: scrivere. Ecco la sua testimonianza:

«L’odore delle case non me lo scordo. Anche quelle pulitissime degli europei dell’Est ne hanno uno forte, fortissimo. Al disordine degli africani però mi sono abituato. Poi ci sono i professionisti del dispetto: italiani che ti lasciano mutande sporche in giro e frigo pieno e non si fanno trovare in casa.

A quel punto bisogna sfondare la porta e il costo di una toppa nuova è a carico del proprietario: l’ultima spesa, l’ultimo addio. A proposito di saluti, il mio è un mestiere in cui dire “arrivederci” è vietato. Figurarsi, chi vorrebbe rivedermi? Per questo faccio precedere la mia visita da un telegramma anche se non è previsto dalla prassi. Voglio avvisarli, è giusto così. Alcuni mi accolgono, altri no. Alcuni mi indicano dalla finestra un carrozziere. “Lo vedi quello?. Ogni mattina mi tocca guardarlo in faccia quando esco di casa. Mia moglie se n’è andata con lui”.

Altri mi parlano di figli in galera, di figli di altri padri scoperti per caso. Ognuno ha una storia degna, ai loro occhi, di ogni tipo di morosità. Persino nelle case popolari. Che paradosso essere sfrattati da lì. Eppure, se il lavoro lo perdi è l’affitto la prima cosa che smetti di pagare. tanto passa più di un anno prima che… e poi se hai bambini piccoli non te lo tolgono un tetto. Si sbagliano, ipadri finiscono per farsi ospitare da amici, alle madri con figli tocca una casa accoglienza per poco tempo. Poi ci sono i calcolatori.

Quelli che mentre io cerco di non chiedere la collaborazione delle forze dell’ordine loro mi sfidano: le vogliono, eccome. E’ l’unico modo per accelerare le pratiche dell’assegnazione di una casa popolare è far arrivare la polizia: quando parte il fax per loro, arriva anche una comunicazione all‘Istituto Case Popolari. E io che vorrei che tutto si chiudesse in fretta. La mia fatica più grande? La costruzione dell’empatia. Entrare nella loro vita, accompagnarli a lasciare quel tetto. Che poi, resta assurda la faccenda: lo Stato non può garantire solo l’istruzione e le cure mediche ai cittadini.

La casa è un bene primario al pari di questi servizi, una garanzia di dignità ad ogni esistenza, un modo per allentare anche certe tensioni sociali razziste volendo. La casa infine diventa spesso l’ultimo mondo dove riusciamo a vivere. L’ho scoperto una mattina. Vado a casa di una signora, quella che nel quartiere definivano la sarta più brava del quartiere un tempo. Aveva perso il marito in un incidente stradale e il figlio tossicodipendente era finito in carcere.

Vado con la polizia perché non risponde mai al telefono. La troviamo sepolta in casa da una quantità infinita di stracci e vestiti. Armadi divelti, materassi per terra. Ragnatele ovunque. Dodici cani chiusi in una stanza, tre morti e il resto denutriti, non riuscivano ad abbaiare. Era di fretta, ci ha detto con una busta di plastica appesa a un braccio che doveva andare a consegnare un lavoro. Odore rancido ovunque.

Alla parete una foto con lei, il marito e il figlio in una giornata di sole. Erano una famiglia felice, ho pensato. A volte pensi di sapere tutto dell’animo umano, poi invece inizi da capo. Credo sia questo il senso del mio lavoro».

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