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Mafia capitale, Moro: “Un boomerang per tutta la cooperazione sociale”

cooperazione socialeNuova cultura politica, più trasparenza e più controlli. Queste per Giovanni Moro, autore di “Contro il non profit”, le vie d’uscita dall’effetto boomerang che sta investendo il mondo del sociale dopo l’inchiesta. “Dagli anni ’90 il sociale è un business che prolifera sulle emergenze, ma anche sull’abbandono di pezzi di stato sociale”

ROMA – Dopo anni vissuti in un “alone di meritocrazia”, giustificata dal fatto di occuparsi dei più deboli, gli umili e genericamente del sociale, ora tutto il mondo del Terzo settore è colpito da un inevitabile effetto boomerang, che non risparmia nessuno e da cui sarà difficile uscire. L’indagine “Mafia Capitale” ha infatti fatto emergere il ruolo da protagonista di una cooperativa che, sulle spalle di immigrati, rom e disabili, faceva affari con la criminalità organizzata, prendendo accordi con politici in quel “mondo di mezzo” in cui, come spiega bene in un’intercettazione Massimo Carminati, tutti si incontrano e ognuno ha bisogno dell’altro per andare avanti. Ma al di là delle carte, c’è molto di più: c’è l’immagine di un mondo che fa gola a tanti perché è chiaramente un business, dove però la trasparenza e i controlli sono molto spesso solo un miraggio. A sottolinearlo è Giovanni Moro, sociologo e scrittore, autore di “Contro il non profit”, un vero e proprio j’accuse sul non profit italiano, diventato in breve tempo una pietra miliare tra tutti coloro che si occupano del settore.

Dalla meritocrazia ingiustificata all’effetto boomerang: ora difficile uscirne. “Nel mio libro parlavo per il non profit dell’effetto alone, cioè quell’effetto per cui i meriti di qualcuno vengono proiettati su tutti senza ragione. Quest’alone di meritocrazia, ha per lungo tempo investito tutti quelli che lavorano genericamente ‘nel sociale’, e in particolare le  organizzazioni che si occupano di welfare in senso lato – spiega Moro -. producendo di sicuro un beneficio. Oggi però tutto questo ha prodotto un effetto boomerang che, allo stesso modo, pagano tutti: quindi quando si scopre che il signor Buzzi è impiegato in attività criminose  ci vanno di mezzo tutte le cooperative sociali, anche quelle che lavorano benissimo. Tutti vengono giudicati in base ai comportamenti patologici di uno. E’ profondamente ingiusto, ma è quello che sta succedendo oggi, e sarà difficile uscirne”.

Le centrali cooperative rimettano il mandato di controllo, se non possono farlo creano solo alibi. Cosa fare dunque per ripartire e allontanare lo spettro di un sistema tutto invischiato in attività illecite? Secondo Moro sono essenzialmente tre le vie di uscita. Innanzitutto bisogna ripartire da una nuova “cultura pubblica”. “L’ipotesi che se ci fosse stata ancora l’Agenzia delle onlus a vigilare tutto questo non sarebbe successo, non mi convince. Parliamo infatti di 300 mila organizzazioni, ci sarebbe voluto l’esercito per monitorarle tutte– spiega -. Credo che quello che manca è soprattutto una cultura pubblica su cosa deve essere e cosa deve caratterizzare una struttura che svolge attività di interesse generale.  Una cultura che giudichi dunque inaccettabili alcuni comportamenti – spiega -. Lo  sforzo che come italiani dobbiamo fare è quello di essere più attenti e stabilire degli standard irrinunciabili. Altrimenti non ci resta che lo stato di polizia”. Moro si dice scettico anche sulla possibilità che le leggi possano risolvere il problema, più utile sarebbe un’operazione di trasparenza interna alle organizzazioni. “Pochissime cooperative sociali hanno una carta dei servizi, quel contratto tra l’organizzazione e gli utenti che spiega cioè quali sono i servizi erogati, gli standard garantiti e gli impegni presi. Questa carta garantisce parità nei rapporti e chiarisce in che modo si concretizza l’organizzazione, invece moltissime non ce l’hanno – aggiunge –. Credo che questo sia uno degli strumenti che possa prevenire questo tipo di patologie, mettendo a disposizione le informazioni necessarie agli utenti”. Infine, uno degli aspetti più importanti, spiega il sociologo, è quello di rivedere il ruolo delle centrali rappresentative. “Credo che oggi sia necessario che tutte le centrali cooperative e le centrali di imprese, a cominciare da Legacoop, rinuncino alla loro funzione di controllo, rimettendo la responsabilità è alle singole cooperative – afferma-. Devono dire chiaramente: rimettiamo il mandato che la legge ci affida perché non lo possiamo onorare, così si toglierebbe un alibi, perché spesso il controllore e il controllato finisco per essere lo stesso soggetto. Se la certificazione la fa l’associazione di imprese a cui sei associato, infatti, sei sicuro che non ti succederà niente. E questo non può che far proliferare comportamenti illegali”.

Più soldi con gli immigrati che con la droga: dagli anni ’90 il sociale è un business. Bisogna rimettere al centro l’operato delle organizzazioni, al di là della forma e dell’immagine che all’esterno si vuole dare. “Tutte queste attività che storicamente sono state inventate dall’ attivismo organizzato dei cittadini a partire dagli anni ’70, con l’invenzione del non profit degli anni 90 sono diventate un grosso business e questo naturalmente genera i rischi che ora stiamo verificando. Il simbolo di tutto questo è Buzzi che dice che gli immigrati fruttano più della droga – aggiunge Moro – in quella frase c’è tutto. E quindi non stupisce che oggi ci siano cooperative sociali create dalla ndrangheta, che si fondano anch’esse su un alone di benemerenza. Non conta la forma, non conta lo statuto, solo la presunta bontà delle intenzioni – aggiunge- invece deve contare solo quello che si fa”. Secondo Moro quello che vediamo in questi giorni non è diverso dallo scandalo Expo o Mose, ma “per la prima volta  tutto questo è gestito dalla criminalità organizzata ma soprattutto per la prima volta  è protagonista un’ organizzazione di cittadini, una cooperativa sociale. Questo ruolo dominante ci deve far riflettere, perché vuol dire che davvero è cambiato qualcosa – conclude Moro – . Tanti sono i meccanismi che hanno influito su questo business: le continue emergenze e gli appalti senza gara, ma anche l’outsoursing con cui la Pubblica amministrazione, che non ha risorse o capacità , chiama partnership l’abbandono di pezzi di stato sociale ad altri soggetti. Un meccanismo che garantisci innanzitutto un supporto elettorale. E allora rispetto a tutto questo quando parliamo di una nuova economia, dell’economia civile, dell’ impresa sociale, è giusto chiedersi davvero di cosa stiamo parlando. Credo che ci sia un eccesso di visione nei discorsi sulla nuova economia che sta nascendo , una retorica spesso staccata dalla realtà”. (ec)

vai all’articolo originale, associazioniinrete.it

 

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