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Il Sessantotto delle campagne

Il 1° marzo 1968 ha luogo per la prima volta una manifestazione di protesta nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, e del ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Ne sono protagonisti alcune centinaia di agricoltori, che, alla Fiera internazionale di Verona, prendono d’assedio il tavolo della presidenza di un convegno a cui sono stati sollecitati a partecipare dalla stessa organizzazione. Così inizia il lungo Sessantotto delle campagne

don milani

A differenza di quanto avviene in altre parti del mondo, il moto di contestazione che, nella seconda metà degli anni Sessanta, trasforma le coscienze, i modelli di vita e l’organizzazione collettiva di parti estese della società italiana, vede protagonista, in forme originali, anche il mondo rurale. Il Sessantotto non è, dunque, almeno in Italia, un fenomeno che riguarda esclusivamente studenti e operai, università e fabbriche. Non è un fatto meramente urbano. Averlo letto con le lenti urbanocentriche e operaiste è stato il motivo di fondo per il quale ancora oggi, a cinquant’anni da quell’evento, non siamo ancora riusciti a comprenderne il senso più profondo.

I limiti degli studi storici

Manca ancora una ricostruzione storica basata su documentazione non episodica o limitata. E soprattutto manca un quadro d’insieme del fenomeno nel lungo periodo. La crisi politica che allora si apre non si è mai risolta. Nonostante la domanda di profondi cambiamenti, in questi cinque decenni, non si è fatta alcuna riforma istituzionale seria, i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno per nulla rivisto i fondamenti dei propri statuti. La società civile ha dato vita a nuovi movimenti e organizzazioni sociali che però non hanno mai raggiunto un equilibrio con un sistema politico capace di rinnovarsi profondamente. La “guerra fredda” era di fatto finita con Kennedy, Krusciov, Adenauer, De Gaulle, Papa Giovanni e Togliatti. Ma usciti repentinamente di scena quei grandi protagonisti, i loro successori hanno continuato a “fingere” un conflitto che non aveva più ragion d’essere perché la “rivoluzione verde” aveva accresciuto enormemente la produzione agricola. Neanche, a seguito della caduta del Muro di Berlino, si prende atto che un mondo è finito e che bisogna costruire nuove istituzioni e nuove forme di rappresentanza politica e sociale. Arrivano la globalizzazione indotta dall’ultima rivoluzione tecnologica e la crisi economica del 2008. Ma niente. Tutto resta come prima. Perché la domanda di cambiamento espressa dal Sessantotto, dopo cinquat’anni non trova risposta? Per comprenderlo, bisognerebbe chiedersi: chi erano quegli studenti? chi erano quegli operai? Erano perlopiù i figli dei contadini fuggiti dalle campagne alle prese con la modernizzazione dell’agricoltura. Oppure i figli dei contadini che si erano appena trasformati in imprenditori. Era, dunque, tutta la società in ebollizione. E la storia di questo lungo ’68 va ricostruita esaminando tutti i gangli della società, l’insieme delle trasformazioni, se si vuole capire perché è una vicenda che non passa.

Le motivazioni di fondo del disagio sociale

Il grande esodo dalle campagne verso le città e dal Mezzogiorno verso il triangolo industriale non aveva spento la voglia dei contadini di partecipare alla vita del Paese. Anzi era emerso un protagonismo attento ai problemi nuovi e inediti, affiorati a seguito della “grande trasformazione”. E tale aspetto ora lo differenzia enormemente dal protagonismo che si era espresso in occasione delle lotte per la terra. Sono rimasti nelle campagne contadini che adesso posseggono finalmente il loro podere come veri imprenditori. L’hanno comprato o lo stanno riscattando oppure lo conducono in affitto e pagano un canone più equo. Ma si accorgono che il maggior grado di autonomia e libertà che deriva dalle condizioni più stabili di possesso della terra non si traduce in un’espansione soddisfacente dell’iniziativa economica.

La politica dei prezzi praticata da Bruxelles garantisce migliori condizioni di vita ma impedisce di crescere dal punto di vista imprenditoriale. All’agricoltore viene chiesto solo di produrre di più e se poi non vende quello che realizza non importa, perché è in parte comunque garantito. Non ci sono servizi che aiutino gli agricoltori ad utilizzare meglio le risorse del territorio, a diversificare le attività aziendali, a costruire relazioni economiche con le industrie di trasformazione e le imprese di commercializzazione di reciproca soddisfazione. Non ci sono azioni formative con cui migliorare le proprie conoscenze e competenze. Mancano rapporti stabili tra i centri di ricerca e sperimentazione e le aziende agricole per evitare che il progresso tecnico sia frutto solo dell’iniziativa dell’industria produttrice di mezzi tecnici e delle strutture commerciali. Non ci sono strumenti capaci di cogliere nuovi bisogni sociali che l’agricoltura può soddisfare da tradurre in un’effettiva domanda di beni e servizi e in nuovi mercati da costruire.

L’associazionismo imposto dai regolamenti comunitari in Italia è gestito quasi interamente dal sistema di potere che gravita intorno alla Coldiretti e alla Federconsorzi. Non costituisce, dunque, uno spazio di libera partecipazione per accrescere la dimensione economica della propria impresa. Si presenta, invece, sotto forma di un insieme di agenzie che gestiscono le politiche protezionistiche e sono fondate su meccanismi burocratici imposti dalla pubblica amministrazione.

Manca in generale una preparazione adeguata degli amministratori locali per organizzare i servizi civili e migliorare la viabilità nelle campagne, per avvicinare le condizioni di vita delle aree rurali a quelle delle zone urbane. Le differenze che permangono tra vita in città e vita in campagna vengono ora avvertite come un’ingiustizia non più motivabile nel nuovo contesto produttivo ed economico dell’agricoltura.

Gli effetti distruttivi di un “boom economico” non governato

Non si avverte l’urgenza di politiche pubbliche volte a mitigare il rischio idrogeologico connesso alla “grande trasformazione” e alle profonde modifiche negli usi del suolo e delle acque che si concretizzano a seguito della crescita dell’urbanizzazione e delle aree industriali nelle pianure e dei fenomeni di abbandono nelle alture collinari e montane. E gli eventi catastrofici non si fanno attendere: l’alluvione del 1954 nel Salernitano che causa oltre 300 morti; la frana che nel 1963 precipita nella diga idroelettrica del Vajont e provoca l’evento idrogeologico più grave nella storia dell’Italia unita, uccidendo 2 mila persone; la frana di Agrigento del 1966 che distrugge una parte consistente della città abusivamente edificata; l’alluvione del 1966 che colpisce Firenze e che ha come causa principale la costruzione avventata di due dighe idroelettriche; l’alluvione del 1968 nel Biellese che provoca oltre 70 vittime e trascina con violenza fino a Vercelli le spole dei lanifici Valmossesi incautamente edificati sugli argini di un corso d’acqua.

Tali episodi sono gli effetti luttuosi e distruttivi di un “boom economico” non governato. La gestione del territorio è, difatti, un aspetto del tutto marginale nell’agenda politica. E tutto ciò produce sgomento e spaesamento nelle campagne, dove invece è ancora viva la sensibilità alle pratiche secolari di manutenzione della terra. Sconcerta soprattutto l’incapacità delle classi dirigenti di ricordare che l’agricoltura è innanzitutto il grande archivio dove si conserva e si aggiorna la capacità degli uomini di riprodurre non solo gli agrosistemi ma anche l’insieme delle interrelazioni tra città e campagne.

La nuova condizione dei contadini

La condizione in cui molti contadini vengono ora a trovarsi mette in discussione due elementi di fondo della loro condizione precedente. Il primo è l’autonomia nell’introdurre il progresso tecnico in azienda e nell’organizzare le proprie relazioni economiche. Il secondo è la libertà di scegliere processi produttivi e attività in un ventaglio ampio di opportunità offerte dalle economie locali e informali.

Ma questi condizionamenti derivano direttamente dal progresso che si è realizzato nelle campagne e si possono attenuare solo con un protagonismo degli agricoltori sul terreno economico e con politiche che accompagnino e rafforzino tale protagonismo. In realtà, le politiche pubbliche che si realizzano svolgono proprio una funzione opposta perché sono improntate ad una logica assistenzialistica, tipica delle misure dei primi anni Cinquanta.

Le forme prevalenti d’intervento pubblico con riferimento ai mercati agiscono solo come sistema di garanzia e non costituiscono un’opportunità di crescita. Man mano che si rafforzano sul piano professionale e imprenditoriale, gli agricoltori avvertono sempre più l’importanza di questi nuovi problemi e fanno fatica a seguire le logiche della contrapposizione politica proprie degli anni della “guerra fredda”, che tra l’altro si riferivano a problemi che non esistono più o che si sono molto attenuati.

Non ci sono più i “capipopolo”

Del resto, la maggior parte dei “capipopolo” delle lotte contadine degli anni Quaranta, essendo i più svegli e intraprendenti, o sono emigrati definitivamente, oppure si sono trasformati in artigiani o in piccoli imprenditori industriali.

Nel Mantovano, Steno Marcegaglia, figlio di un emigrante e impegnato nell’Alleanza dei contadini, nel 1959 aveva deciso di avviare l’attività imprenditoriale nella metallurgia. Trasformerà in un trentennio la piccola azienda in un gruppo internazionale, leader nella lavorazione dell’acciaio.

Nelle organizzazioni agricole molti dirigenti sono stati, pertanto, sostituiti da agricoltori più giovani e meno legati ideologicamente ai partiti di riferimento. Ciò permette uno scambio più libero a livello di base tra le organizzazioni professionali. E la conseguenza è una richiesta sempre più pressante che si leva dagli agricoltori verso le rispettive strutture di rappresentanza per realizzare una maggiore autonomia dai governi, dai partiti e dai sindacati e organizzare la vita interna in modo tale che i gruppi dirigenti debbano rendere conto del proprio operato. Nella Coldiretti soprattutto, ma anche nelle altre organizzazioni, dove vigono pratiche verticistiche e gerarchiche, ciò che sta accadendo sconvolge la vita interna e genera crepe che si faranno sempre più vistose negli anni a seguire.

La scuola di Barbiana

Da una scuola di campagna, quella di Barbiana, e da una personalità del calibro di don Lorenzo Milani giungono due strali contro gli equilibri tradizionali che ne restano sconvolti.

Il primo è la pubblicazione di Lettera a una professoressa che rappresenta la critica più spietata che in quel periodo colpisce le istituzioni scolastiche. Il libro ha immediatamente un impatto enorme nella società italiana e contribuisce ad alimentare la protesta studentesca. Rivela, infatti, l’arretratezza dell’”istituzione-scuola” e il permanere di pesanti ingiustizie: “Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa di questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi”. Ed elogia l’azione collettiva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

L’altro strale è la difesa appassionata di un diritto relativamente nuovo, quello all’obiezione di coscienza. Fanno scalpore gli articoli di don Milani che affermano senza mezzi termini: “L’obbedienza non è più una virtù!”

Come osserverà acutamente Ernesto Balducci, don Milani opera nel passaggio cruciale dalla civiltà contadina a quella industriale, “non per facilitarne il traghetto, ma per porre una ricerca critica che investe lo stesso mondo industriale trionfante. E questa è la novità del suo contributo”. Lo riconoscerà anche Pier Paolo Pasolini quando esalterà lo “spirito critico” esercitato dal sacerdote di Barbiana “nei confronti degli uomini e della società” e definirà la sua esperienza che precorre il Sessantotto come “l’unico atto rivoluzionario di questi anni”.

Insomma, cova sotto la cenere un senso di ribellione che sta per esplodere. Non è la ribellione in nome del bisogno, che aveva caratterizzato l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Ma è la ribellione in nome della felicità, della qualità della vita, del valore delle proprie capacità individuali. Un desiderio forte di liberarsi dal passato che trattiene e vincola, bloccando la libertà personale. E di liberarsi collettivamente.

Il disagio dentro la Coldiretti

I primi mesi del Sessantotto delle campagne sono caratterizzati, per la sua forte valenza simbolica, dalla manifestazione di protesta nei confronti del presidente della Coldiretti, Paolo Bonomi, e del ministro dell’Agricoltura, Franco Restivo. Ne sono protagonisti alcune centinaia di aderenti alla Coldiretti, che il primo marzo, alla Fiera internazionale di Verona, prendono d’assedio il tavolo della presidenza di un convegno a cui sono stati sollecitati a partecipare dalla stessa organizzazione. Lanciando cartocci di tetrapak pieni di latte, uova e ortaggi di vario tipo e dimensione, non smettono il tiro a bersaglio fino a quando non intervengono le forze dell’ordine.

Essi provano nei confronti della propria organizzazione un senso di delusione e, soprattutto, si sentono ingannati per il fatto di essere stati a lungo sollecitati dalla stessa Coldiretti a votare un partito (la Dc), che non mostra più di riservare la tradizionale attenzione verso il loro mondo. Gli agricoltori incominciano a comprendere che la scelta di Bonomi di attrezzare la Coldiretti come una sorta di “partito contadino” associato alla Dc non paga più. Alle manifestazioni che, da qualche anno e con crescente intensità, l’Alleanza dei contadini organizza in ogni parte d’Italia, partecipano, sempre più numerosi, anche molti agricoltori aderenti alla Coldiretti.

La manifestazione dei sessantamila

Per tutta la primavera del 1968, la mobilitazione nelle campagne diviene sempre più viva ed estesa. E sfocia, per iniziativa dell’Alleanza, nella “manifestazione nazionale dei sessantamila”, che si svolge il 5 luglio a Roma. Le parole d’ordine vanno dal “riequilibrio dei rapporti economici tra l’agricoltura e l’industria” al “miglioramento delle condizioni civili nelle campagne”, dalla “parità delle prestazioni previdenziali e sanitarie” ai “contratti agrari più equi”. Ma al di là delle rivendicazioni più immediate, si avverte il senso di aspirazione profonda a cambiamenti significativi delle stesse modalità della politica e dei rapporti tra cittadini e governanti, la cui portata dirompente sfugge agli stessi organizzatori della manifestazione.

Grande è l’impressione che suscita nella capitale il lungo corteo di agricoltori coi canti, i prodotti, i colori, gli animali e i mezzi meccanici delle mille campagne italiane. Si affacciano alle finestre e scendono in strada a salutarli centinaia di romani, che da quel mondo e dalle più disperse contrade, anche in anni recentissimi, sono giunti per occupare un posto di lavoro negli uffici pubblici.

Si fanno vedere anche gli studenti, che a febbraio avevano occupato la Facoltà di Architettura e si erano scontrati con la polizia a Valle Giulia. Distribuiscono ai coltivatori volantini che contengono parole d’ordine inneggianti alla socializzazione della terra; ma non già perché vogliono trasferire nelle campagne italiane il modello collettivistico esistente in Unione sovietica. I movimenti studenteschi sono, infatti, fortemente critici con l’autoritarismo e la restrizione delle libertà individuali che caratterizzano i Paesi comunisti. E non è a quel modello che essi guardano nel formulare i loro slogan per la manifestazione contadina. È piuttosto la lettura dei rappresentanti della Scuola di Francoforte ad influenzarli. In particolare, un loro esponente di spicco, Theodor Adorno, considera la famiglia contadina e il villaggio come contesti intrinsecamente incapaci di favorire l’emancipazione e la sprovincializzazione degli individui. Sicché per gli studenti solo un intervento esterno e una forma socializzante, come appunto la comune, potrebbero permettere di superare i limiti delle forme di vita borghigiane e rurali. È un modo per ribadire la presa di distanza dalla società tradizionale e dalle sue forme sociali autoritarie, ma anche per evidenziare il significato emancipante e liberatorio della cultura e della formazione insiti nella loro scelta di frequentare l’università. E i contadini, venuti a Roma a manifestare, sanno cogliere negli studenti quest’ansia di libertà e perciò dimostrano nei loro confronti affetto e simpatia.

Un’occasione mancata?

Tale ansia ha molto a che fare con l’assillo dell’autonomia che permea la cultura contadina più profonda. In questi valori dell’individualismo, dell’autonomia e della libertà, al di là dei contenuti specifici degli slogan utilizzati, potrebbero, dunque, esserci i termini per saldare le ragioni più intime degli uni e degli altri, ma nessuno sa trovare il modo per farlo. È forse un’occasione mancata per costruire movimenti intergenerazionali duraturi e profondi?

Emilio Sereni aveva appena scritto un saggio sulla rivista Critica marxista in cui invita la sinistra a cogliere le novità che si intravedono nelle lotte studentesche e ad aprire una riflessione critica e autocritica per adeguare le proprie strategie. Egli individua nella contestazione degli studenti, prima ancora di una ripulsa del sistema sociale, un rifiuto della collocazione che i primi sviluppi della rivoluzione scientifico-tecnologica assegna a studenti e ricercatori nell’ambito del sistema dell’informazione e della scienza. E coglie, dunque, il dischiudersi di una dialettica nuova che prelude il superamento di una società divisa in classi e l’affermarsi del protagonismo di un mondo che ha già compiuto il suo salto dal regno della necessità in quello della libertà.

Gaetano Di Marino, membro della presidenza dell’Alleanza, aveva tradotto, in un linguaggio più accessibile, questi concetti sul periodico dell’organizzazione Nuova Agricoltura, richiamando le grandi opportunità, che si aprono anche per il progresso delle campagne, quando sono posti al centro dell’attenzione i temi dell’istruzione e della conoscenza. E tuttavia, dopo la manifestazione di luglio, lo stesso Di Marino scrive una nota critica, dal titolo polemico “Non prestiamo tribune”.

“I gruppi studenteschi – denuncia – non hanno sollevato i temi della riforma dell’università, su cui si poteva fare un dibattito, (…) hanno invece preteso di indicare una strategia e una politica agraria del tutto nuova ed opposta a quella che faticosamente e autonomamente il movimento contadino è venuto elaborando.” Una posizione sacrosanta a cui però non dovrebbe seguire il rifiuto del dialogo e della reciproca comprensione dei significati più profondi nei propri convincimenti.

La riluttanza dei dirigenti dell’Alleanza a dialogare a tutto campo coi movimenti giovanili è il riflesso di una più generale incapacità della sinistra di offrire una sponda alla domanda di cambiamento, che le nuove generazioni esprimono. Una domanda che, qualora fosse letta attentamente, potrebbe incanalarsi, finalmente con un consenso molto più ampio, verso quella rivoluzione liberale mai avvenuta nel nostro Paese. Un’aspirazione storica che richiama antichi intrecci valoriali tra primato della persona, forme libere di gestione dei beni comuni e scambi fondati su relazioni di mutuo aiuto e reciprocità. Valori che erano stati eclissati e in parte distrutti dalle culture stataliste, nazionaliste e autarchiche, fondamentalmente illiberali e autoritarie.

Le cinque giornate di Asti

Intanto le manifestazioni contadine continuano. Memorabile è rimasta la forte e coesa mobilitazione di viticoltori che si sviluppa sulle strade di Asti, dentro e fuori la città, in cinque “giornate di lotta” con l’impiego di migliaia di trattori.

Dopo l’ennesima disastrosa grandinata che quasi ogni anno colpisce i vigneti del Monferrato e delle Langhe si avverte con maggiore acutezza l’esigenza di battersi per ottenere un fondo di solidarietà in grado di permettere ai coltivatori di fronteggiare la falcidie dei redditi.

Per tentare di spegnere la protesta viene impiegato lo schieramento delle forze di polizia in assetto antisommossa la cui imponenza è del tutto ingiustificata. La radicalità dei comportamenti e l’atteggiamento repressivo della polizia sono un tratto comune di tutte le azioni di lotta che in questo periodo si mettono in scena nelle città e nelle campagne.

L’eccidio di Avola

Alla fine di questo lungo Sessantotto rurale, una forte emozione suscitano i fatti di Avola, in provincia di Siracusa, dove il 2 dicembre due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, sono uccisi e altri cinquanta feriti dalla polizia. Scioperano per ottenere che i miseri salari agricoli siano almeno eguali all’interno della provincia. Ha molta eco nell’opinione pubblica l’uso immotivato delle armi su folle di contadini inermi. Insomma, si ripete quel moto spontaneo di solidarietà che avevano suscitato gli eccidi perpetrati dalla polizia in occasione delle occupazioni delle terre nel secondo Dopoguerra.

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Ma non se ne colgono le ragioni più profonde, i fili che collegano permanenze e cesure antiche e nuove domande di soggettività e di relazioni paritarie fondate sull’aiuto reciproco. Lo scontro di Avola è forse da mettere in relazione anche alla “strategia della tensione” che settori decisivi dell’apparato statale e dei gruppi dirigenti politici ed economici stanno avviando per respingere la domanda di cambiamento.

La protesta sindacale guidata dalla Federbraccianti-Cgil si propaga in moltissime province italiane coinvolgendo decine di migliaia di lavoratori agricoli. Il malessere crescente e il grave deterioramento delle relazioni sindacali nelle campagne inducono Alfonso Gaetani ad annunciare le dimissioni dalla presidenza della Confagricoltura e ad avviare la successione al vertice confederale. Si tratta di un primo segnale che indica con nettezza che gli equilibri di potere, che si erano costruiti solo da un paio di decenni nelle campagne italiane, si stanno sfaldando.

Alle iniziative di lotta dei lavoratori agricoli si uniscono gli studenti universitari e medi e nasce da qui, dal contatto diretto con le palesi e gravi ingiustizie sociali che si consumano nelle aree rurali, la decisione del movimento studentesco di alcune città di contestare le più aperte ostentazioni di sfarzo e di lusso. Il 7 dicembre, a Milano, come avevano fatto gli agricoltori il 1° marzo alla Fiera di Verona, si lanciano uova e ortaggi questa volta contro le pellicce e gli abiti da sera dei partecipanti all’inaugurazione della Scala, mentre il 31 dicembre la protesta riguarda il veglione che si svolge nel locale più prestigioso della Versilia, “La Bussola”, a Marina di Pietrasanta. Anche in quella occasione si fa viva in gran parata repressiva la polizia, che ferisce un ragazzo che manifesta, Soriano Ceccanti.

La lunga stagione dei movimenti collettivi

Le azioni di lotta nelle campagne continueranno intensamente anche nel 1969, alcune con caratteristiche diverse da quelle fin qui esaminate, ma rientranti comunque in quella che Guido Crainz ha definito “la stagione dei movimenti collettivi” che si dispiega nel “complesso rimescolarsi della società italiana”.

A Battipaglia, il 9 e il 10 aprile ci sarà una vera e propria rivolta a causa della crisi dell’industria conserviera dell’area e per la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio. Per la prima volta, la sinistra sindacale e politica sarà fuori dal movimento e fatta oggetto di contestazione. Anche a Fondi, nel Lazio meridionale, una manifestazione di alcune migliaia di contadini per protestare contro le conseguenze della crisi agrumaria porterà al blocco dei binari ferroviari. All’arresto di alcuni dimostranti, da parte delle forze dell’ordine, si risponderà con un assedio della locale caserma dei carabinieri sedato con idranti.

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La lunga e irrisolta crisi politica e sociale

Il lungo ciclo del Sessantotto delle campagne fa emergere una forte domanda di cambiamento da parte di una pluralità di nuovi soggetti sorti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo imprenditori agricoli professionali e a tempo parziale, ma anche tecnici, professionisti, operai specializzati, artigiani vivono nei territori rurali e chiedono a gran voce forme di rappresentanza politica e sociale capaci di affrontare i nuovi termini dello sviluppo.

Ma né i partiti, né le organizzazioni sociali sanno rispondere a questa domanda di rinnovamento adeguando la propria cultura politica, i propri programmi e le proprie strutture. È soprattutto carente un’analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle campagne; e ciò impedisce di cogliere le interrelazioni tra i diversi settori produttivi, la pluralità dei soggetti sociali e i loro bisogni, le esigenze delle imprese agricole che producono per il mercato e le potenzialità dell’agoalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali.

Intorno ai problemi ambientali incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti e sta per nascere così quel fenomeno – tipico dei paesi industrializzati – definito come «nuova ruralità». Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica affrontano in termini nuovi il problema del rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge l’allarme per la scarsità di tale risorsa, e Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo in cui prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna.

Giungono dagli Stati Uniti le idee dei movimenti che avevano sostenuto il programma di ricostruzione ecologica, culminato nel Wildlife Restoration Act del 1937, col quale l’amministrazione Roosevelt aveva ritenuto di riparare a una politica d’indifferenza verso lo stato di conservazione della natura, e in particolare delle acque e delle foreste. Idee che si rafforzano con il principio di responsabilità di cui ha parlato Hans Jonas, allievo di Heidegger e sostenitore dell’esigenza di porre dei limiti alla nostra libertà, di coltivare un’etica dei valori in modo tale che ogni individuo possa agire nel rispetto di se stesso e degli altri, non sottovalutando l’ambiente nel quale vive l’uomo.

Alcuni avvertono l’esigenza di integrare tali apporti culturali di stampo anglosassone con la nostra cultura tecnico-scientifica, agronomica ed economico-agraria, che da tempo si cimentava, mediante un approccio aperto ad altre discipline, come la sociologia e le scienze dell’educazione, nell’accompagnare i processi di modernizzazione per prevenire i fenomeni negativi con cui si era manifestata la crisi ecologica. Un filone culturale combattuto, ridimensionato e ostacolato dalle forze dominanti, benché fosse erede di una lunga tradizione millenaria attenta a coniugare in modo equilibrato le ragioni produttivistiche dell’agricoltura, le ragioni conservative delle risorse naturali e i valori comunitari e solidaristici della civiltà agraria, non avversa alle innovazioni tecnologiche, ma decisiva per la configurazione di modelli-tipologie di sviluppo ecologicamente armoniche. Ma ancora oggi questa ricucitura culturale ancora non è avvenuta per poter avviare seriamente un ripensamento delle nostre idee di sviluppo e rimarginare la frattura ecologica che si produsse tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

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