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Cattolicesimo democratico e voto

Con le ultime elezioni sta nascendo una nuova questione cattolica? Quale presenza dei cattolici in politica? Il metodo più adeguato per ricucire il rapporto tra sovranità e popolo è quello della laicità, inteso come pratica di dialogo e collaborazione tra visioni plurali che convivono nella società, comprese le fedi e le religioni

La disfatta della sinistra coincide anche con quella del cattolicesimo democratico, già componente essenziale del progetto del Partito democratico,” scrive, il 7 marzo 2018, Adriano Sofri sulla sua pagina Facebook. E aggiunge: “Ma c’è qualcosa di più, per la coincidenza con il papato di Francesco: sconfitto anche lui, dopo una campagna invasa dallo spettro dell’immigrazione e conclusa –  liquidata l’ampolla del dio Po – dal disgustoso autodafé di Salvini che giurava e chiamava a giurare sul rosario. Di Maio, aveva baciato la reliquia di san Gennaro: ma questo era di prammatica”.

In una intervista al Corriere della sera (8 marzo 2018) Bruno Forte, vescovo e teologo, afferma: “mi chiedo se non sia da avviare una riflessione nella Chiesa italiana su una terza via possibile tra il vecchio collateralismo, ormai inaccettabile, e il rischio di irrilevanza (…) Se è giusto che si siano prese le distanze dal collateralismo di un tempo, mi sembra che come Chiesa in Italia ci troviamo  ancora in una fase di transizione, nella quale non è chiaro come la voce dei pastori e della comunità cristiana possa farsi sentire in maniera più incisiva e diretta nel dibattito politico, specie su ciò che sta più a cuore in chi si ispira al Vangelo.”

Un mondo da ripensarsi

In questi due rapidi passaggi – due personalità  che appaiono (e forse sono) distanti quanto mai: il teologo  vescovo e un analista politico che di sé afferma «a mio credito ho la privazione dai diritti civili, sicché nessuno può sospettarmi concorrente» –  c’è l’affresco drammatico di un mondo, tutto da ri-studiare, analizzare e ri-pensare: il cattolicesimo democratico, una parte consistente dell’annuncio (vangelo e pensiero) dell’attuale papa dei cattolici, il cristianesimo politico (in Italia ma anche in Europa: Polonia, Ungheria…).

Bruno Forte sembra tutto teso a riconsiderare la recentissima scelta della Conferenza episcopale italiana improntata ad un sano distacco della politica attiva: (citiamo nuovamente: “ci troviamo  ancora in una fase di transizione, nella quale non è chiaro come la voce dei pastori e della comunità cristiana possa farsi sentire in maniera più incisiva e diretta nel dibattito politico, specie su ciò che sta più a cuore in chi si ispira al Vangelo.” Il vescovo Forte, sembra manifestare una memoria corta. Egli, infatti, non può non ricordare, ad esempio, che non è la prima volta che questo tema si pone – in generale e nel particolare delle stagioni politiche italiane – e sa benissimo che non molti anni fa la Conferenza Episcopale Italiana – di cui egli è membro autorevole – ha lanciato un «Progetto culturale». Nella Chiesa, che è in Italia, tutte le sue istituzioni hanno definito nel 1997 e praticato in seguito, un progetto culturale orientato in senso cristiano. Nel documento della CEI del giugno 2001, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia – orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000, viene precisato che: “Tutte le Chiese particolari e ciascuna delle nostre piccole o grandi comunità devono prestare attenzione a questa conversione culturale…”. A quel tempo molti di noi si chiesero stupiti: conversione  culturale? Ma a cosa e verso “chi”, i vescovi stanno chiamando i cattolici?. La ‘conversione’ alla quale Gesù, nel discorso della montagna, sulle colline della Galilea, chiamò i suoi discepoli  è  una ‘conversione culturale’?  Può la ecclesiatrasformarsi in ‘progetto culturale’? «Cristo è Risorto»  è un progetto culturale? Il teologo Bruno Forte potrà, senza alcun dubbio, apprezzare questi interrogativi. Questa stessa Chiesa italiana – appena concluse le elezioni politiche del 1994 (con la entrata in politica di Silvio Berlusconi e il nuovo Partito di Forza Italia) –  salutò con entusiasmo il (citiamo testualmente) “giovane ed efficace raggruppamento messo in campo da Berlusconi”; al quale subito, ancor prima di vederlo all’opera, attribuì questo grande merito: “ ha messo in prima linea l’importanza della famiglia e non ha taciuto la tradizione cristiana dell’Italia”. Nell’aprile 1994, dunque, Avvenire, nel supplemento per la diocesi di Roma, di cui era vescovo, vicario  del papa, Camillo Ruini, presidente della CEI, dava voce ad una precisa scelta di campo, titolando con enfasi: È tempo di guardare avanti. Avanti, dunque: dopo alcuni anni, verso il 2011, il nuovo presidente della CEI, Angelo Bagnasco,  registrando una situazione insoddisfacente e malumori nella comunità ecclesiale –  usa questa nuova formula: “Sembra stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione della politica che sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni”. In parte confermando il percorso intrapreso e in parte dichiarandosi non soddisfatto. Ancora qualche anno e quel ventennio tormentato arriva a concludersi: oltre che non vedere (salvo una miopia globale) i frutti del progetto culturale del cattolicesimo italiano, maturò nel suo seno la nascita del populismo organizzato (nelle elezioni del 2013 entra in Parlamento un partito-non partito: cosiddetto “Movimento 5 stelle”.

In questi ultimi pochi anni, una parte del Cattolicesimo democratico è stato al governo del Paese dandogli elementi indiscutibili di respiro sul piano economico (i conti pubblici: si viene da un rischio di default – Fate presto”). Alcune, tanto attese, conquiste civili (Unioni civili – migliaia di persone hanno riavuto la dignità del vivere in società; Bio-testamento – migliaia di persone hanno riavuto la dignità di morire), avendo giurato – il cattolico presidente del Consiglio, Matteo Renzi – sulla Costituzione e non sul Vangelo. Troppo scarsi, invece, ma anch’essi reali, i miglioramenti sociali, ogni giorno dovendosi far quadrare gli equilibri di bilancio. Sul fronte – cruciale – delle immigrazioni (tanto caro al papa Francesco) il Governo in carica ha mostrato umanità, con il riconoscimento da più parti in Europa e nel mondo (spesso lasciato in solitudine e con tanta alterigia da alcuni Stati membri dell’Unione europea, tra essi la cattolicissima Polonia: anche lì abbiamo visto un cordone di rosari, della stessa sostanza di quello nelle mani del deputato Salvini, a difesa della Patria).

Bruno Forte, membro del Consiglio dei vescovi italiani, conferma che il vecchio collateralismo (dunque: le due presidenze della CEI – Ruini 1991/2017 e Bagnasco 2007/2017) è irripetibile; nel frattempo una nuova  presidenza è in corso: Bassetti 24 maggio 2017: “ci troviamo  ancora in una fase di transizione”, chiosa il vescovo Forte. E, annunciando una terza via, denuncia “il rischio di irrilevanza”, e noi siamo d’accordo; ben venga una riflessione seria, laica, sul dovere civico del cattolicesimo italiano di fronte alla democrazia del Paese. Dice, poi: “ci sono molti credenti tra gli elettori, anche nelle forze emergenti, ma la loro voce si è sentita poco o niente”. Ci pare ben poca cosa, a fronte del cataclisma democratico che emerge nel Paese e le assai non trasparenti prassi di democrazia e trasparenza in queste “forze emergenti”. Attendiamo ora, essendo essi – “i molti credenti anche nelle forze emergenti” – entrati nel Parlamento, che dimostrino la loro abilità al governo, oltre che alla facile denuncia.  La domanda è, infatti, dove e come sono cresciute le radici  dei populismi e degli estremismi, in questi anni di Progetto culturale: cosa si è predicato e si è insegnato nelle migliaia e migliaia di «Parrocchie» in Italia. Quale sguardo e quale passione civiche hanno animato il dialogo nella ecclesia sul bene pubblico della società, sull’intraprendere che crea lavoro, sulla economia che crea futuro (abbiamo, infatti, sentito la condanna della “economia che uccide”).  E attendiamo che “i molti credenti anche nelle forze emergenti” lavorino per trasformare questa Unione europea, essendo essa, questa Europa, costitutivamente (Preambolo del Trattato) “ispirata alle eredità culturali, religiose ed umanistiche”.

Una nuova questione cattolica?

Maurizio Crippa (Il Foglio del 9 marzo 2018) si chiede se l’esito delle elezioni politiche ci consegna una «nuova questione cattolica» e «se il Movimento 5 stelle sia la nuova Democrazia cristiana». È un’ipotesi che va esplorata perché contiene alcuni elementi di plausibilità. Nella storia d’Italia, infatti, è già accaduto altre volte che, dinanzi alle crisi del liberalismo e della democrazia rappresentativa, l’atteggiamento della Chiesa cattolica non è stato quello di curarne i mali difendendone i caratteri di fondo, ma di approfittarne a proprio vantaggio anche a rischio di indebolirli.

L’ideologia democristiana era fondata sul concetto che i cattolici in politica dovessero realizzare un “progetto storico” volto a edificare una “nuova cristianità” sulle ceneri  della “vecchia civiltà occidentale cristiana”. Tale idea è stata elaborata inizialmente da Jacques Maritain. Il quale, agli inizi delle sue elaborazioni, teneva ben distinto un piano spirituale e un piano temporale, affermando il primato del primo sul secondo. Secondo il filosofo francese, nell’impegno temporale e nell’impegno politico andava sempre salvato il primato dello spirituale, cioè della formazione interiore, intellettuale e morale. L’autenticità della conversione spirituale è – secondo questo principio –  presupposto d’ogni presenza e d’ogni servizio cristiano al mondo.

Pietro Scoppola, cattolico anche lui, riteneva che il progetto maritainiano “abbia svolto per i cattolici il ruolo che per altre aree culturali hanno svolto le ideologie”. Anche in esso, sebbene in misura diversa, sono presenti “l’idea e la pretesa che la storia degli uomini si possa prevedere e dominare nei suoi sviluppi  complessivi in un disegno di lungo periodo, che sia consentito all’uomo non solo dare una ‘risposta’ agli eventi, ma un più profondo ‘dominio’  degli eventi, legato alla possibilità di attingere ad un motivo unificante della storia nel suo svolgimento”.

Le riserve sul liberalismo e la democrazia

Ancora e soprattutto negli anni tra le due guerre, Maritain espresse forti riserve circa il ruolo che le democrazie liberali avevano svolto fino ad allora. Dinanzi alla crisi del liberalismo e della democrazia rappresentativa che era esplosa in Europa in modo dirompente, all’indomani della primo conflitto mondiale, il filosofo francese sostenne: “C’è un errore liberale che fa consistere la libertà dell’uomo nell’indipendenza della sua volontà da ogni regola esterna […] che fa altresì consistere la giustizia delle relazioni tra gli uomini, non nella conformità alla legge divina, ma nel solo consenso fra le persone; o che fa infine consistere la libertà del pensiero nella sua indipendenza da ciò che è, e nel rifiuto di ogni magistero”. Un altro punto di critica fu, invece, in fondo una polemica con l’essenza dello spirito democratico: “Pensare che il potere civile abbia la sua fonte principale non in Dio autore della vita, ma nella moltitudine”.

Una correzione rimasta in ombra

Ma nel periodo tra il 1940 e il 1945 –  durante l’esilio negli Stati Uniti d’America – Maritain si liberò delle riserve che egli aveva nutrito fino a quel momento nei confronti della democrazia e del liberalismo. Questa la sua testimonianza in  «Riflessioni sull’America » (1958): “Effettivamente, proprio in America ho fatto autentica esperienza di quella che, tanto per intenderci, non è già un insieme di slogan astratti o un nobile ideale, ma una vera e propria maniera di vita umana, operante, perpetuamente sperimentata e perpetuamente ritoccata e corretta. Qui ho incontrato la democrazia come realtà vivente”. Questo suo nuovo atteggiamento lo portò a rivedere molte sue idee precedenti. Ma le sue opere principali, tra cui Umanesimo integrale (1936), si erano già, nel frattempo, molto diffuse anche in Italia, e questa sua evoluzione e correzione – intellettuale e politica – rimase nell’ombra.

Il confronto  De Gasperi – Dossetti

Durante gli anni della fondazione della Dc, della costituente e poi della rottura dell’unità antifascista e  del centrismo,  la cultura del “progetto storico” fu al centro del confronto, a tratti aspro,  tra Alcide De Gasperi e il gruppo di giovani intellettuali che avevano in Giuseppe Dossetti la guida al tempo stesso spirituale, intellettuale e politica. De Gasperi, che si era formato prima del fascismo, nel Trentino asburgico e nella militanza popolare, era sostanzialmente estraneo a quella cultura, che invece aveva impregnato la formazione, inevitabilmente più astratta, della generazione più giovane, alla quale il fascismo aveva inibito ogni forma di impegno politico e sociale. Al centro del contrasto c’era il rapporto tra ispirazione cristiana in politica e cultura liberale con tutte le sue implicazioni: di politica estera, con la scelta atlantica ed europeista di De Gasperi, contestata dai dossettiani, più inclini a un certo neutralismo; e di politica economica e sociale, ove in questione era la concezione dello stato e del rapporto tra stato, mercato, società: liberal-pluralista nel caso di De Gasperi, mentre la nuova generazione era più assai incline a una concezione forte dello stato e a una robusta diffidenza nei riguardi del mercato.

Le origini dell’attuale ristagno

Quello scontro politico si concluse con la sconfitta del capo della Dc, favorita anche dalla Chiesa di Pio XII. Il partito post-degasperiano fece emergere così gli aspetti deteriori del “progetto storico” di “nuova cristianità”, di cui Maritain si era invece liberato durante l’esilio americano. E quali furono quegli aspetti deteriori? Fiducia nello stato (e nella spesa pubblica) e diffidenza per il mercato, la competizione, il merito, perfino l’autorganizzazione sociale in base al principio di sussidiarietà. Una sorta di sottocultura prodotta dall’incontro mancato tra la coscienza religiosa dei cattolici italiani e la cultura liberaldemocratica europea e occidentale. Una sottocultura che fu alla base dell’inadeguatezza delle classi dirigenti del nostro Paese rispetto al compito di gestire l’imponente sviluppo economico che si era manifestato a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Non solo quei gruppi dirigenti non furono capaci di controllare le tensioni distributive e procedere con un programma di efficaci riforme strutturali, ma condivisero con l’opposizione comunista e i sindacati un’indifferenza all’idea che l’inflazione andava stroncata rapidamente e che i disavanzi pubblici non dovevano essere tali da alimentare un debito crescente.

La società post-secolare, società aperta

Tra i fenomeni che, a livello mondiale, sono alla base dell’attuale crisi del liberalismo e della democrazia rappresentativa – accanto alla globalizzazione che tende a spostare la scala dimensionale ottimale delle policies a un livello sovranazionale  e allo scadimento della politica a sottosistema funzionale non più gerarchicamente sovraordinato nella società – va considerata la secolarizzazione, intesa come critica e crisi del principio di autorità e di appartenenza comunitaria.

La secolarizzazione non solo ha sostituito il “progetto storico” di “nuova cristianità”, ma ha finito a sua volta per mettere radicalmente in discussione il soggetto stesso della democrazia, ossia il popolo. Perché non può darsi popolo senza appartenenza ad esso, senza “fraternità”, e senza autorità che da esso promani e su di esso si eserciti. Ad essere minato è lo stesso principio della “società aperta”, vividamente descritto da Karl Popper nel 1945, ma senza considerare attentamente la necessità e l’importanza delle “legature”, ossia di tradizioni e legami sociali, per l’integrazione sociale all’interno di una società.

Il populismo (specie quello che tenta di richiamarsi a miti religiosi) si pone come il tentativo di evocare il popolo in chiave anti-secolare, alimentando in tal modo conflitti sociali ingigantiti dai fenomeni migratori. Il problema del rapporto tra sovranità e popolo non può, dunque, essere affrontato nello schema duale società secolarizzata/religioni  ma in una nuova concezione della laicità. Solo in tal modo si potranno salvaguardare i principi del liberalismo e della democrazia rappresentativa.

Un tentativo di colmare lo iato tra religione cattolica e liberalismo è stato fatto in un famoso dialogo di Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger risalente al 2004.  “Nella società post-secolare – ha sostenuto  il sociologo e filosofo tedesco – si giunge a conoscenza  che la ‘modernizzazione della coscienza pubblica’ comprende, in fasi diverse, mentalità sia religiose che secolari e le trasforma riflessivamente. Se concepiscono insieme la secolarizzazione della società come un processo di autoapprendimento complementare, entrambe le parti possono prendere sul serio reciprocamente, anche dal punto di vista dei fondamenti cognitivi,  il loro contributo a temi controversi nella sfera pubblica”.

Da allora Ratzinger ha progressivamente attenuato la retorica dei “principi irrinunciabili” fino a non insistere più su tale tasto. Egli aveva avviato negli anni Ottanta una complessa operazione culturale per sdoganare, finalmente, le novità del Concilio Vaticano II all’insegna della continuità con la tradizione. Gruppi di studiosi di rilevanza internazionale si erano avviati a condurre una revisione storiografica del rapporto fra tradizione cristiana e modernità ed a rivendicare alla Chiesa cattolica una funzione strategica e meriti nell’aver creato gli stessi presupposti della modernità e, in particolare, di quella libertà di coscienza che i popoli cristiani godono, ad esempio, rispetto alle nazioni islamiche. Un modo per rilanciare in forme nuove un progetto egemonico. Il futuro papa Benedetto XVI aveva esorcizzato l’Illuminismo facendolo diventare paradossalmente una sorta di figlio – seppure impertinente e un po’ ribelle – del cristianesimo: “Anche l’ethos dell’Illuminismo, che tiene ancora insieme i nostri Stati, vive dell’influenza postuma del cristianesimo, il quale gli ha trasmesso le basi della sua razionalità e della sua struttura interna”. Ma quell’opera immane di revisionismo storiografico ha dovuto presto fare i conti con la questione islamica, a seguito dell’esplodere del terrorismo internazionale. Supplisce in qualche modo l’attivismo di papa Francesco, con le sue novità e le sue contraddizioni, comprese le manifeste tendenze populistiche che gli derivano dalla sua esperienza latino-americana [Scrive Juan Carlos Scannone, suo professore al tempo degli studi argentini: “La religione popolare latino-americana è stata capace di resistere ai colpi dell’illuminismo e del laicismo”, in «Quando il popolo diventa teologo»].

Il metodo della laicità

Il metodo più adeguato per ricucire il rapporto tra sovranità e popolo è quello della laicità, inteso come pratica (con le sue procedure e i suoi percorsi partecipativi) di dialogo e collaborazione tra visioni plurali che convivono nella società. E in tale pluralismo delle culture collocare le fedi e le religioni. La prima condizione perché ciò accada è che i credenti imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse, secondo la celebre formula di Grozio. Devono cioè imparare a confidare nella sola ragione, che del resto, nella fede cristiana, è essa stessa dono di Dio, logos umano che partecipa del logos divino. La sistematica applicazione di questa regola eviterebbe il cortocircuito integralista e la retorica infruttuosa sui principi non negoziabili. La seconda speculare condizione è che i non credenti, a loro volta, imparino sempre meglio a pensare il diritto, fondamento della politica, etsi Deus daretur, come se Dio ci fosse. Devono cioè imparare a considerare il diritto come una conquista storica  che non rinuncia a pensarsi come condizione di possibilità della libertà stessa. Attraverso questa regola, la libertà come principio di autodeterminazione  si apre alla responsabilità ed evita di ridursi a egoismo individualistico.

Viviamo in società multiculturali e multideali complesse. Le appartenenze e le identità sono diventate molteplici e di natura diversa: territoriali, sociali, generazionali, sessuali, professionali, scientifiche, etniche, religiose, ideali, culturali. Attengono non solo a visioni del mondo ma anche, semplicemente, a specifici stili di vita e a modi distinti di relazionarsi, produrre e consumare. E tali antiche e nuove identità e appartenenze si sovrappongono nello stesso individuo e negli stessi gruppi, costituendo identità e appartenenze plurime.

Il metodo della laicità permetterebbe il confronto tra le diverse appartenenze e identità, il loro riconoscimento e la loro convivenza. Orienterebbe le appartenenze e le identità verso il superamento delle proprie chiusure e intransigenze e ad aprirle alla comprensione reciproca e alla cooperazione universale. Smaschererebbe il conformismo e la menzogna e farebbe emergere la libertà e la sincerità. Aiuterebbe a contenere le paure, l’incertezza e il disagio e a stimolare il coraggio, l’intraprendenza, il saper fare e l’operosità.

La laicità non si contrappone all’identità e non la contraddice, perché è semplicemente un metodo. Incivilisce le identità, quando esse hanno la tendenza a farsi “identità armate”, con la sua pratica e le fa evolvere nel cambiamento continuo globale. È per questo che “sinistra” e “destra” sono in futuro destinate a differenziarsi per il diverso grado di laicità della propria azione. La laicità è sinonimo di dinamismo, cambiamento e solidarietà. L’identità che resiste all’azione incivilente del metodo della laicità è sinonimo di conservazione, stagnazione ed egoismo. Più le pratiche laiche si affermeranno e più cresceranno l’apertura al diverso, l’inclusione sociale, l’interazione culturale, la vitalità sociale ed economica delle persone e delle comunità, le pari opportunità, e meglio potranno essere soddisfatti i nuovi bisogni. Meno le pratiche laiche si espanderanno e più si ergeranno i muri, si emargineranno gli ultimi, diventeranno esplosive le diseguaglianze.