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Questione abitativa – Il convegno UNIAT FeNEAL UIL

La relazione del Presidente Pascucci: 'Per un nuovo sviluppo delle politiche abitative.'

 

La relazione introduttiva del Presidente Nazionale Uniat Fabrizio Pascucci
PER UN NUOVO SVILUPPO DELLE POLITICHE ABITATIVE IN ITALIA

 

La prima domanda che ci siamo posti nell’organizzare la riflessione odierna è se esista oggi nel nostro paese  una politica della casa.

In queste ore dobbiamo prendere atto  come l’iperproduzione di decreti sulla politiche  del  territorio  (dlgs 70/2011), sulla casa, sul federalismo fiscale e municipale (cedolare secca), la politica rincorra i problemi sull’onda di esigenze elettorali invece che affrontare i problemi strutturali del nostro paese. Dall’analisi di cosa è stato fatto finora su questa tematica e dal quadro che ci apprestiamo a delineare risulta evidente il fatto, che a fronte di una crescente domanda  di case ad affitto “sociale”, fino ad oggi rappresentato dalla grande proprietà pubblica (ex IACP) e di “affitto moderato” (canone concordato) applicato dagli enti previdenziali, fondazioni e similari, la politica praticata è quella delle dismissioni di case  in affitto con queste caratteristiche,  aggravando il già difficile mercato dell’affitto “restringendolo” ancora di più e facendone  lievitare ulteriormente il costo.

 

IL MERCATO DELL’AFFITTO

 

La crisi economica e quella immobiliare stanno disegnando una nuova stagione per il mercato dell’affitto in Italia. Gli elementi dello scenario, e le  tipologie della domanda  sono diversi e vanno affrontati attraverso una attenta analisi. Di certo come base della nostra riflessione abbiamo la convinzione che le cose si stanno aggravando, sotto diversi punti di vista.

In primo luogo si aggrava un processo di polarizzazione tra chi ha una casa in proprietà e chi non ce l’ha, sul dimensionamento e sulla caratterizzazione di questa quota di mercato di chi sta già in affitto. In sostanza è in atto un aggravamento della situazione di una quota di famiglie che stanno in affitto. Se sino a ieri avevamo risolto il problema abitativo, oggi vedono a rischio la propria condizione abitativa per l’aggravarsi della crisi e per l’eccezionale incremento degli affitti avvenuto nel tempo. In sostanza un parte delle famiglie in affitto vede il proprio ” ascensore sociale”  scendere, trainato ai piani più bassi dalla crisi che incide sui loro redditi e dal prezzo esorbitante degli affitti.

In secondo luogo va crescendo una quota di mercato di famiglie in transizione, famiglie che invece di pagare l’affitto pagano un mutuo, e che, con la crisi lo fanno con sempre maggiore difficoltà. E’ una quota per ora contenuta, ma crescente e significativa che dobbiamo misurare.

In terzo luogo vi è la questione dei giovani che escono dalle famiglie di origine e da un lato formano nuove famiglie o vanno a vivere da soli e si confrontano con una condizione lavorative di precariato,  incertezza  e livelli di reddito particolarmente contenuti.

“Generazione 1.000 euro” un recente film che ha saputo ben cogliere il momento.

In quarto luogo vi è la questione del flusso di immigrazione crescente nel nostro paese che incide sulla domanda abitativa con valori e quantità importanti, è una domanda che satura in forme intensive il patrimonio in offerta e che pone evidenti questioni in termini di modalità di offerta.

Come trattiamo questa domanda: come una domanda di mercato da segmentare in forme tradizionali o come un segmento a parte, particolare della domanda?

Vi è inoltre la questione, che investe principalmente le città maggiori, della domanda di affitto espressa da un lato dagli studenti e dall’altro dai city users. Anche queste due tipologie di domanda, che hanno a che fare con la figura dei ‘temporanei’ incidono sullo scenario di mercato perché alimentano il dimensionamento dei prezzi dell’affitto nel complesso rapporto tra domanda e offerta.

E infine, alla base della nostra riflessione , vi è la domanda sociale più debole, di quelli che non ce la fanno a pagare nessun affitto di mercato. La domanda delle famiglie “povere”, “abbastanza povere “appena povere” come l’Istat definisce ormai la condizione di difficoltà delle famiglie italiane. La profonda crisi economica produce quindi  una polarizzazione sociale e  la proprietà o meno della casa diventa  una componente rilevante di accentuazione nell’aggravarsi della crisi sociale.

 

 II dimensionamento del patrimonio in affitto

 

Occuparsi di case e di affitto in Italia non è facile. Secondo il CRESME lo stock residenziale italiano è costituito nel 2009 da poco più di 29,3 milioni di abitazioni.  Secondo i recentissimi dati del catasto urbano aggiornato al 31 dicembre 2008 dall’Agenzia del Territorio, le abitazioni accatastate sono invece 32 milioni.

La differenza è di 2,7 milioni di abitazioni. La differenza è importante e pone serie questioni anche rispetto alle precedenti rilevazioni censuarie del 2001 dell’Istat. Non è ancora chiaro se il censimento catastale  dell’Agenzia del Territorio abbia consentito di recuperare vecchi cespiti o sia da attribuire ad un ben maggiore boom edilizio  degli anni 2000, o ancora se sia una questione che riguarda unità immobiliari accatastate come abitazioni e in realtà utilizzate per altre destinazioni d’uso (uffici, studi, ecc).

Dei 29 milioni di abitazioni esistenti in Italia nel 2009, ca. 24 milioni sono abitazioni principali occupate dai residenti.  5.390.000 abitazioni sono seconde case o sono in attesa di essere vendute o affittate, o sono tenute vuote o utilizzate in forme saltuarie.

Il Cresme stima che le case realmente vuote in Italia siano poco meno di 1,1 milioni. Dei 24 milioni di abitazioni principali  4,2 milioni, il 17,7% sono in affitto; di questi poco meno di 1 milione, 23,8%,  sono pubblici. Va detto che  tra il 2001 e il 2008 lo stock edilizio pubblico si è ridotto del 6%.

 

Tabella 1. Il patrimonio edilizio italiano per modalità di utilizzo e titolo di godimento(2009)

 

Abitazioni in Italia

29.350.000

100,0%

Abitazioni principali

23.960.000

81,6%

Proprietà

18.410.000

76,8%

in affitto

4.230.000

17,7%

Altro titolo

1.320.000

5,5%

Abitazioni non occupate

5.390.000

18,4%

Uso vacanza/studio/lavoro

4.320.000

80,1%

Non utilizzate

1.070.000

19,9%

 

 

 

Alloggi pubblici di Enti centrali,

Enti locali ed ex-IACP

966.300

 

 

 

-6,0% tra il 2001 e il 2008

Fonte: elaborazione Cresme su dati Istat e Cresme/SI

 

                                                               Quante famiglie e quanto crescono

Le famiglie anagrafiche in Italia al 31 dicembre 2009, secondo l’Istat, sono 24.905.042. Al 31 dicembre 2008 le famiglie anagrafiche erano 24.641.200: in un anno la crescita è stata di 263.842 nuove famiglie. La crescita media annua delle famiglie dal 2009 al 2001, frutto del saldo tra famiglie estinte e nuove, è stata di poco meno di 310.000 famiglie all’anno. Negli stessi anni la popolazione italiana è cresciuta di 334.458 abitanti all’anno. La dimensione media teorica della crescita è di 1,08 componenti. Oggi la dimensione media della famiglia italiana è di 2,42 componenti .  In realtà, utilizzando altre indagini, possiamo dire che poco più del  25% delle famiglie italiane è formata da una persona sola; mentre  le coppie senza figli rappresentano un altro 21 % della popolazione . In sostanza poco meno della metà delle famiglie italiane  è formata da un single o da una  copia senza figli. Il fenomeno dei single andrebbe affrontato con attenzione soprattutto alla luce dei flussi di immigrazione che rappresentano la variabile principali delle dinamiche demografiche crescenti del paese, e alla luce dei flussi di “temporanei”  (studenti universitari, city users) che investono le aree più dense di servizi del paese.

Sono  flussi che guardano all’affitto con maggiore attenzione di altri. 

 

Come analizzare e riaggregare la domanda abitativa espressa dai single stranieri e della popolazione studentesca è certo uno dei temi sul tappeto.

 

L’affitto in Italia e una prima analisi delle situazioni di difficoltà: 1 milione di famiglie in difficoltà

 

Secondo l’indagine ISTAT sul “Reddito e condizioni di vita”  (EU-SILC – European Union Statistics on Income and Living Conditions) del 2008, le famiglie italiane sono 24,7 milioni: 16,9 milioni di famiglie (68,5%) sono proprietarie dell’abitazione dove vivono; 4,7 milioni (18,9%) vivono in affitto  e 3,1 milioni (12,6%) dispongono di una abitazione uso frutto o a titolo gratuito. In corrispondenza di queste sono 42 milioni (70,2 per cento) gli individui che vivono in case di proprietà, 11 milioni (18,3 per cento) quelli che vivono in affitto e 6,9 milioni (11,5 per cento) in usufrutto o in uso gratuito. Dei 4,7 milioni di famiglie italiane che vivono in affitto, 1,3 milioni hanno un canone ridotto e 3,4 hanno invece un canone di mercato.

 

Tabella 2. Analisi quantitativa di alcune condizioni abitative in Italia . Indagine 2008 applicata all’universo di famiglie 2009

 

Canone

ridotto

Canone

di mercato

Affitto

 

Con mutuo

 

Senza

 Mutuo

Proprietà

 

Uso

 gratuito

Totale

 

Totale

            1.305.984

        3.351.203

        4.657.187

        3.301.921

         13.577.301

         16.879.222

        3.104.791

24.641.200

%

 

5,3

13,6

18,9

13,4

55,1

68,5

12,6

100

Famiglie in arretrato

 

 

 

 

 

 

 

 

- utenze

               300.376

           727.211

        1.024.581

           449.061

           1.072.607

           1.519.130

           419.147

            2.962.858

- affitto

               193.286

           405.496

           652.006

                     -  

                       -  

                       -  

                     -  

               652.006

- mutuo

                         -  

                     -  

                     -  

           250.946

                       -  

              250.946

                     -  

               250.946

- spese    

  casa

               339.556

           911.527

        1.252.783

           577.836

           1.072.607

           1.654.164

           419.147

            3.326.094

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte: Elaborazione CRESME su dati ISTAT

____________

 

Secondo la Banca d’Italia, invece, l”abitazione di residenza delle famiglie italiane è nel 68,7 per cento dei casi in proprietà, nel 21,4 per cento in affitto, nel 9,3 per cento è occupata ad altro titolo (usufrutto e uso gratuito), mentre nel restante 0,6 per cento dei casi è a riscatto . Rispetto alla indagine dell’ISTAT cresce l’affitto, che se consideriamo le famiglie 2008 dell’anagrafe ISTAT, la percentuale stimata dall’indagine di Banca d’Italia ci porterebbe a 5,3 milioni di famiglie, 500.000 in più dell’ISTAT.

In ogni caso da una lettura attenta dei dati dell’indagine ISTAT, emerge una misurazione delle condizioni di difficoltà presenti importante: 195.000 famiglie a canone ridotte, il 14,9% del totale, fanno fatica a pagare l’affitto e sono in arretrato, valore che sale a 410.000 per le famiglie che stanno sul libero mercato (12,1% in difficoltà). Vi sono poi 253.000 famiglie, divenute proprietarie con un mutuo, che fanno fatica a pagare le rate(7,6%).

D’altro canto Banca d’Italia ci dice che nel  2008 sono state circa 300 mila le famiglie gravate da un mutuo per la casa (il 9,0 per cento di quelle con un mutuo), che hanno ottenuto da Banche o Società Finanziarie condizioni differenti rispetto a quelle stipulate inizialmente . In sostanza sono state costrette a riconfigurare il debito.

In sintesi secondo l’indagine dell’Istat, nel 2008, le famiglie in difficoltà in arretrato sull’affitto sono più di 660.000 (250.000 a canone moderato e quindi socialmente deboli già in partenza; e 410.000 penalizzate dalla crisi e dalla crescita degli affitti), mentre altre 250.000 sono le famiglie che fanno fatica a pagare una rata di mutuo.

La difficoltà di chi vede peggiorare la propria condizione abitativa riguarda quindi 900.000 famiglie, e 2.150.000 persone.  Potremmo dire che si tratta del contributo della crisi al peggioramento dell’emergenza abitativa. E se si considerano invece la base statistica dell’indagine di Banca d’Italia , il numero delle famiglie in difficoltà abitativa  si avvicina al 1 milione.

 

Gli sfratti un ulteriore indicatore dell’aggravarsi della situazione di chi sta in affitto

 

Un ulteriore elemento di peggioramento della situazione viene dalla dinamica degli sfratti: infatti, la spirale degli sfratti è cresciuta negli ultimi anni in modo preoccupante: nel 2008 le richieste di esecuzione sono state 138.443, il picco massimo dal 1984. Nel 2009 le richieste di esecuzione sono scese a 116.573, ma rimangono il secondo valore dagli anni 2000. E se le richieste sono un po’ scese, pur mantenendosi su livelli alti, sono i provvedimenti di sfratto emessi, e le loro caratteristiche, a preoccupare: nel 2009 i provvedimenti emessi sono stati 61.484, nel 2008 erano stati  52.033  La crescita è del 18,1% . Ma soprattutto dei 61.484 sfratti emessi nel 2009, l’83% è per morosità , nel 2008 era stato il 79%, mentre nel 1984, picco massimo del numero di provvedimenti di sfratto emessi  delle serie storica disponibile, la morosità incideva per il 12,8% e la ragione principale era la “finita locazione”. Qui non sono i proprietari che rivogliono indietro gli alloggi, sono gli inquilini che sempre più faticosamente riescono a pagare  l’affitto mensile e questo si traduce, dopo un po’ di tempo in morosità che induce alla richiesta di provvedimento di sfratto.


 

Tabella. 3 Sfratti; Provvedimenti emessi, richieste di esecuzione, sfratti eseguiti in Italia dal 1983 al 2009

 

Provvedimenti di sfratto emessi

Richieste di esecuzione (*)

Sfratti eseguiti (**)

Anno

 

Necessità locatore

Finita locazione

Morosità / Altra causa

Totale

Variaz.% rispetto anno precedente

Totale

Variaz.% rispetto anno precedente

Totale

Variaz.% rispetto anno precedente

1983

20.442

100.891

17.895

139.228

-

47.572

-

17.664

-

1984

10.191

116.818

18.779

145.788

4,7

50.569

6,3

19.048

7,8

1985

4.933

55.874

21.078

81.885

-43,8

53.635

6,1

17.967

-5,7

1986

3.620

72.379

23.776

99.775

21,8

111.913

108,7

26.297

46,4

1987

1.736

95.167

23.539

120.442

20,7

70.256

-37,2

16.821

-36,0

1988

975

62.104

21.758

84.837

-29,6

49.099

-30,1

13.697

-18,6

1989

676

48.261

20.098

69.035

-18,6

73.300

49,3

13.820

0,9

1990

614

59.462

21.609

81.685

18,3

98.811

34,8

16.537

19,7

1991

679

66.327

23.684

90.690

11,0

98.957

0,1

16.574

0,2

1992

581

53.849

23.912

78.342

-13,6

109.426

10,6

17.788

7,3

1993

462

42.639

26.299

69.400

-11,4

129.169

18,0

19.598

10,2

1994

770

39.856

27.099

67.725

-2,4

118.529

-8,2

18.647

-4,9

1995

693

33.901

23.379

57.973

-14,4

117.614

-0,8

17.367

-6,9

1996

984

35.376

28.279

64.639

11,5

127.237

8,2

17.790

2,4

1997

729

23.175

26.322

50.226

-22,3

122.286

-3,9

17.161

-3,5

1998

1.029

18.321

25.569

44.919

-10,6

126.011

3,0

19.821

15,5

1999

511

14.230

24.203

38.944

-13,3

96.219

-23,6

17.869

-9,8

2000

665

13.329

25.412

39.406

1,2

103.072

7,1

21.614

21,0

2001

808

12.755

26.937

40.500

2,8

98.068

-4,9

20.608

-4,7

2002

647

12.329

27.154

40.130

-0,9

91.574

-6,6

20.389

-1,1

2003

664

10.839

27.781

39.284

-2,1

83.748

-8,5

23.000

12,8

2004

742

12.873

32.578

46.193

17,6

78.099

-6,7

25.267

9,9

2005

852

11.195

33.768

45.815

-0,8

106.335

36,2

25.671

1,6

2006

669

10.548

34.309

45.526

-0,6

100.821

-5,2

22.278

-13,2

2007

674

9.236

33.959

43.869

-3,6

109.446

8,6

22.468

0,9

2008

539

10.486

41.008

52.033

18,6

138.443

26,5

24.959

11,1

2009

700

9.208

51.576

61.484

18,1

116.573

-15,8

27.584

10,5

Fonte: Ministero dell’Interno  * presentate agli Ufficiali Giudiziari ** Con intervento dell’Ufficiale Giudiziario

 

Gli stranieri e l’affitto e i conti sulle famiglie italiane

 

L’analisi delle condizioni abitative delle famiglie in Italia dal punto di vista della locazione, come abbiamo accennato, deve fare i conti con le profonde trasformazioni demografiche che il nostro paese ha vissuto.  Non è un caso, infatti, che nel 2009, l’Istat ha condotto per la prima volta l’indagine “Reddito e condizioni di vita” su un campione di 6.000 famiglie con almeno un componente straniero residenti in Italia. La rilevazione si è avvalsa degli stessi strumenti metodologici utilizzati per l’indagine “Reddito e condizioni di vita – EU-SILC1″  raccogliendo una serie del tutto analoga di informazioni socio-economiche. Il quadro delle famiglie con stranieri fornito da questa rilevazione può quindi essere confrontato con quello delle famiglie composte solamente da italiani. 

Come ci ricorda l’ISTAT, alla fine del 2009 i cittadini stranieri residenti in Italia sono 4 milioni e 235 mila, pari a circa il 7 per cento della popolazione totale; le famiglie in cui è presente almeno uno straniero ammontano invece a 2 milioni e 74 mila (8,3 per cento).

La dimensione media della famiglia straniera è di 1,5 componenti.  Inoltre, la quota di famiglie miste (composte sia da italiani, sia da stranieri) sul totale di quelle con stranieri – un indicatore del grado di integrazione nella comunità autoctona – è pari al 22,6 per cento.

 

Tabella 4. Famiglie Italiane e straniere in proprietà e affitto 2009

 

Affitto

Proprietà

Altro titolo

Totale

 

 

 

 

 

Totale famiglie  con  un componente straniero

            1.608.380

           632.940

                  498.680

2.740.000

- famiglie composte solo di stranieri

            1.371.873

           320.174

                  428.313

2.120.360

- famiglie miste italiani stranieri

               235.463

           314.157

                    70.019

619.640

- famiglie solo di italiani

            3.546.459

      15.848.237

               2.770.671

22.165.366

Famiglie totali in Italia

            5.154.839

      16.481.177

               3.269.351

24.905.366

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte: elaborazione Cresme su dati Istat e Cresme/SI

 

Le famiglie in affitto, secondo questa rilevazione, sono 5,1 milioni, delle quali il 26,6% rappresentate da famiglie di stranieri, e il 4,6% rappresentate da famiglie miste di italiani e stranieri. Le famiglie di  stranieri rappresentano il 13,1% delle famiglie che occupano le abitazioni per altro titolo e occupano il 2% del patrimonio in proprietà.

Appare evidente che una quota degna di nota del problema abitativo del nostro paese ha a che fare con la crescita della popolazione straniera.

Del resto se facciamo riferimento ad analisi territoriali, come il rapporto dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità (2009) della Lombardia, e  attente riflessioni sulla condizione abitativa ivi contenute[1], emergono ulteriori elementi di conferma dello scenario tracciato. In Lombardia, infatti,  “considerando l’insieme della popolazione immigrata, l’affitto (per la quasi totalità nel mercato privato) è la sistemazione prevalente: interessa il 63,7 % degli immigrati – il 52,4 % solo o con parenti, l’11,3 % in affitto con altri immigrati. Il 22,1 % abita in una casa di proprietà. Il restante 14,2 % si trova in sistemazioni non abitative, più o meno precarie: sul luogo di lavoro, oppure ospite di familiari o amici, oppure in centri di accoglienza, oppure in situazioni estreme, di homelessness in senso letterale (senza dimora, baracche, occupazioni abusive)”.

In sostanza quindi, si possono individuare tre diverse tipologie di comportamento: una quota nettamente maggioritaria  di stranieri, vive in abitazioni “normali”, con titoli di occupazione normali, opera in un mercato normale. E’ domanda normale. A questa si affianca una seconda fascia di domanda fatta di “situazioni incerte – per la tipologia o le condizioni di occupazione – che possono comprendere consistenti componenti di precarietà.

Una parte almeno delle sistemazioni “in affitto con altri immigrati”, l’ospitalità presso parenti (insieme le due modalità fanno un 15,6% di persone in coabitazione, entrambe molto più frequenti tra le coorti di arrivo in Lombardia più recente), e la permanenza sul luogo di lavoro. Infine troviamo le situazioni segnate da più decisi tratti di precarietà o da sicura marginalità abitativa: da una parte concessioni gratuite, strutture di accoglienza, pensioni a pagamento; dall’altra occupazioni abusive, baracche, campi nomadi. Sono sovrarappresentati in questo gruppo immigrati irregolari, uomini soli in emigrazione, disoccupati e lavoratori irregolari”.

 

Va sottolineato che “le serie storiche documentano un incremento in questo decennio di soluzioni propriamente abitative e un ridimensionamento delle soluzioni (esplicitamente) precarie.

 Questa progressione ha visto un’accelerazione negli ultimi anni. Nel 2006 la sesta indagine dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità metteva in rilievo diversi indicatori che facevano pensare ad un primo “punto di rottura” rispetto ad una precedente “era abitativa”: “a) l’accelerata crescita d’incidenza dei proprietari di abitazione; b) la quota divenuta di maggioranza assoluta di persone in affitto da soli o con familiari e, di contro, c) la frazione minima e in netta diminuzione nel tempo di persone in affitto in coabitazione con altri immigrati; infine, soprattutto, d) le più basse quote d’incidenza mai registrate annualmente a partire dal 2001 per quanto riguarda l’area del precariato abitativo” (Fondazione Ismu 2008, 137).

Il senso della progressione – che è comune alla maggior parte delle aree urbane del Centro-Nord dove si sono concentrati i fenomeni migratori – è reso evidente dai due principali fattori cui sono correlate le diverse sistemazioni abitative: l’anzianità migratoria e la presenza o meno di una famiglia a fianco in emigrazione, due fattori che suggeriscono la relazione tra inserimento abitativo e integrazione. La presenza di una famiglia “risulta il fattore più fortemente protettivo rispetto alle migliori soluzioni abitative“. E., mettendo a confronto i due gruppi estremi – da una parte le persone in notevoli situazioni di disagio e dall’altra gli immigrati che vivono in abitazione di proprietà – l’indagine lombarda evidenzia come “i primi sono più spesso soli in emigrazione [.], mentre i secondi sono nella maggioranza assoluta dei casi in nuclei di quattro o di tre persone, classicamente composti dai due genitori più i figli (Fondazione Ismu 2008, 142).

L’anzianità migratoria è, così, la “variabile cardine nello strutturare il profilo abitativo”. “Chi è presente in Italia da più di un decennio è tre o quattro volte maggiormente rappresentato nel gruppo dei possessori di abitazioni che non in quello in grave difficoltà o precarietà abitativa, mentre – ancor più eloquentemente – chi è sul territorio da non più di ventiquattro mesi è dodici volte maggiormente presente nel secondo gruppo che non nel primo”(ibidem, 143). Interpretando in maniera dinamica i profili alloggiativi per coorti d’anzianità migratoria in Italia – scrive Tosi-, si possono riscontrare traiettorie prevalenti, forse i tratti di una “carriera abitativa”, che si sviluppa parallelamente alla carriera migratoria “tipica” – da un’iniziale maggior precarietà all’affitto in condivisione per poi passare all’alloggio in affitto regolare e magari all’abitazione di proprietà (Fondazione Ismu 2009, 138)

 

 

Il sostegno dalla crisi della domanda: il fondo sociale per l’affitto si riduce del 70%

 

Se la crisi economica ha certo accentuato la crescita delle famiglie in difficoltà, ha anche aggravato le condizioni della fascia di persone più deboli, quelle che si trovano a confrontarsi con il problema dell’emergenza abitativa: non solo la difficoltà a pagare l’affitto, o come abbiamo visto la difficoltà a pagare i mutui, ma proprio la difficoltà a pagare anche canoni ragionevoli. E’ difficile fare i conti organici con la domanda di emergenza abitativa in Italia, forse è il momento di uno studio attento al problema che fissi categorie, segmenti, dimensioni.

Secondo una recente indagine svolta dall’Istat  nel 2007, risultavano erogati, ai vari livelli, circa 300 milioni di euro come contributo per coprire in tutto o in parte le spese di affitto delle famiglie con maggiori difficoltà economiche.

Tali interventi, provenienti in modo particolare dal Fondo Sociale per l’Affitto, riuscivano a raggiungere solo una piccola parte delle famiglie gravate dagli oneri abitativi più ingenti. Le famiglie che riuscivano a  beneficiare di questi contributi erano infatti soltanto 255 mila, ovvero il 5,5 per cento di quelle che vivono in affitto, e il contributo che queste ricevevano arrivava a coprire, in media, solo il 25,1 per cento del canone.


 

Tabella. 5 Dotazione annuale nazionale Fondo sociale per l’Affitto  (“buono casa” -  art. 11 legge 431/1998)

Anno

Importo in milioni di ?

Variazione %

 

 

 

1998

309,9

1999

309,9

0,0%

2000

366,7

18,3%

2001

335,7

-8,5%

2002

249,2

-25,8%

2003

246,5

-1,1%

2004

246,0

-0,2%

2005

230,1

-6,5%

2006

310,7

35,0%

2007

211,0

-32,1%

2008

205,6

-2,6%

2009

181,1

-11,9%

2010

141,3

-22,0%

2011

110,0

-22,2%

2000 – 2011

-256,7

-70,0%

 

Fonte: elaborazione Cresme su dati annuali di riparto Ministero Infrastrutture e Trasporti

 

Va detto che la principale fonte di finanziamento di questa politica, la dotazione annuale del Fondo sociale per l’affitto ha visto nel tempo ridursi significativamente le disponibilità: paradossalmente più passa il tempo più le risorse invece di aumentare diminuiscono: dai 366.7 milioni di euro del 2000, passando per i 211 milioni del 2007, sono crollati ai 141,3 del 2010 e ai 110 nel 2011. Oltre alle dinamiche inflattive, la politica di sostegno alla domanda debole si è ridotta del 70% che corrispondono ad un taglio di 257 milioni di euro. Paradossalmente mentre la questione abitativa si va facendo sempre più grave la politica pubblica si è andata sempre più ritirando.

 

La domanda sociale insoddisfatta in Italia e il nodo del dimensionamento che non c’è

 

D’altro lato è pur vero che gli enti locali affrontano con forme varie e parziali le punte dell’emergenza: dai residence, a forme di sostegno varie e comunque parziali rispetto al fenomeno. Ma il quadro d’insieme non esiste, sia delle azioni messe in atto territorialmente, sia, soprattutto, e questo è più grave, sia della domanda sociale potenziale.

Non  esiste un quadro di insieme nazionale , non esistono sostanzialmente quadri di intervento regionale che fissino obiettivi, tipologie, risorse e azioni. E proprio questo è il problema.

Non c’è nessuno che riesce a dire quante abitazioni servono e per quali fasce di domanda.

Il dimensionamento della domanda sociale,  alla base di tutte le politiche sociali della casa in Europa, pur nella eccezionale diversità dei modelli, da noi è assolutamente carente. In sostanza non si sa qual è la domanda abitativa e quanto pesa la domanda più debole.

E questo è vero anche per la domanda di quella che una volta si chiamava edilizia residenziale pubblica. Quante sono e dove sono le domande.

Su questo piano non esistono quadri chiari.

Esiste una analisi condotta da Federcasa  sui grandi comuni metropolitani del paese che evidenzia come vi siano,  pendenti negli anni 2000, 105.000 famiglie in graduatoria per l’edilizia residenziale pubblica, per un valore che è pari al 1,6% delle famiglie delle aree metropolitane. Se questo valore , che tiene conto dei dati del 1995 di Napoli, si applicasse al totale delle famiglie 2009, si otterrebbe un valore pari a  ca. 400.000 famiglie . In realtà la tensione abitativa al di fuori delle aree metropolitane è, pur presente, minore. Quindi si potrebbe considerare un valore di 300.000 famiglie che possono essere interessate dal fenomeno di una emergenza abitativa che potremmo definire grave.

Per alcuni, tra cui Federcasa stessa, la domanda sociale  è invece di 600.000 alloggi.  Una prima azione importante da fare, che veda coinvolte le forze sociali,  è proprio quella di cominciare a fare i conti correttamente con una indagine ampia e seria sulla domanda di edilizia sociale nel Paese. 

Le ricche indagini dell’ISTAT, o della Banca d’Italia, o di altri soggetti, importanti indagini campionarie, non sono mirate a determinare il fabbisogno. Fissano i temi della questione all’interno di ambiti importanti ma ampi.

L’indagine Istat sui consumi delle famiglie, ad esempio,  stima in circa 1milione 260 mila famiglie – il 5,2% delle famiglie residenti – , come sicuramente povere, hanno cioè livelli di spesa mensile equivalente inferiori alla linea standard di oltre il 20%; sono poi 1milione 500 mila quelle appena povere.

Considerando che l’indagine ci dice che il 34% dei poveri è in affitto, si può stimare che la fascia delle famiglie  povere che sono in affitto è di 428.000 unità e che la fascia delle famiglie appena povere è di poco superiore alle 500.000. Qui dentro sta una quota significativa dell’emergenza, ma serve di più per un piano .tipologico e territoriale puntuale.


 

Tabella 6. Famiglie in graduatoria per un alloggio ERP nelle città metropolitane italiane

 

 

 

 

 

 

Domande

Anno

Differenza

Incremento

nuove cost/ incremento famiglie

 

 

 

 

 

 

 

 

Roma

32.871

2006

3%

Milano

12.820

2007

2%

Bari

11.370

2005

9%

Catania

10.800

2003

8%

Napoli

10.000

1995

1%

Torino

9.965

2007

2%

Bologna

5.361

2007

3%

Venezia

4.179

2005

3%

Palermo

4.073

2003

2%

Firenze

3.437

2006

2%

Cagliari

979

2005

1%

Totale

105.855

 

1,6%

 

 

 

 

Fonte: - Indagine Federcasa 2008, aggiornata per Roma

 

L’affitto è un mercato complesso che investe più segmenti di popolazione

 

Inoltre la crisi abitativa, come abbiamo visto,  non interessa più solo le fasce più povere della domanda.  Recentemente la Commissione di indagine sull’esclusione sociale ha evidenziato il fatto che si sta creando una segmento più ampio della popolazione interessato da fenomeni di emergenza  alloggiativa  o occupazionale, e ha elencato: ”

  • “le famiglie monoreddito (1.200-1.300 euro medi mensili) con figli, in cui l’unico percettore di reddito, pur disponendo di un’occupazione sicura, con contratto a tempo indeterminato, si trova a perderlo, entrando in cassa integrazione o in mobilità, e sperimentando così una drastica riduzione di risorse economiche disponibili, alla quale fanno seguito una serie di difficoltà, prime tra tutte l’impossibilità di far fronte alle spese di affitto e alle utenze, nonché al mantenimento del proprio nucleo familiare. Si tratta di uomini tra i 35 e i 54 anni, sui quali la fase recessiva dell’economia ha già iniziato a farsi sentire, bruciando posti di lavoro e dilatando i tempi di durata della disoccupazione (Istat, 2008).
  • giovani coppie dual earner, in cui entrambi i partner hanno occupazioni atipiche o “non standard”, in cui l’instabilità lavorativa si traduce in interruzione dei rinnovi con pesanti ripercussioni sul reddito disponibile. Anche in questi casi, la prima difficoltà con cui ci si trova a dover fare i conti è il mantenimento dell’alloggio, il più delle volte in affitto.
  • persone anziane che vivono sole (donne over-75enni) con esigue pensioni sociali o di reversibilità (300-400 euro mensili) sotto sfratto esecutivo per morosità;
  • coppie di anziani con una sola pensione o con due pensioni minime, spesso con figli adulti conviventi, non raramente disoccupati, non più in grado di sostenere le spese di affitto e utenze;
  • piccoli commercianti, artigiani e lavoratori autonomi più in generale che soprattutto negli ultimi mesi hanno mostrato segni di difficoltà economica direttamente connessi alla crisi.”

Si tratta di una domanda in difficolta che si aggiunge, con esigenze diverse ma significative,  a quella espressa dalle “povertà estreme” dei senza casa e dalle situazioni di più radicale emarginazione .

 

Boom immobiliare, caro affitto e disagio crescente per rinnovi e i nuovi contranti

 

Il mercato dell’affitto non sta fermo.

Questa riflessione simula cosa succede sul mercato a causa dell’estinzione della durata del contratto di affitto e dell’aumento del costo dell’affitto stesso dovuto al boom immobiliare degli anni 2000.

La fase espansiva del mercato immobiliare residenziale ha certamente prodotto un generale aumento del volume di ricchezza patrimoniale fra le famiglie italiane, ma ciò non ha significato la diffusione tout court del benessere fra i vari strati di abitanti anzi, come spesso accade, le dinamiche di forte e persistente accelerazione dei mercati – nel caso immobiliare 10 anni di fase espansiva, in cui sono state compravendute circa 10 milioni di abitazioni – indeboliscono, attraverso le dinamiche speculative, la fascia di popolazione che non ce la fa a giocare la partita del rilancio.

Possiamo senza ombra di dubbio dire che il settore che esce più debole e redditualmente più povero di prima dalla lunga crescita del mercato immobiliare, già prima della crisi, è quello dei locatari, quello dei “non proprietari di casa”.

 Il  Cresme ha misurato in oltre 1,3 milioni  le famiglie in affitto che già  alla fine del 2005, soffrivano uno stato di tensione economica causato, o aggravato, dall’aumento dei canoni di locazione. Ma ancora peggio era la stima del cambiamento che sarebbe avvenuto di lì a due anni: nel 2007, dei rinnovi contrattuali e dei nuovi contratti, e dei rincari avvenuti nei canoni di locazione tra la data della stipula del contratto e quella dell’ipotetico rinnovo, quasi 1,8 milioni di nuclei (oltre la metà delle famiglie in affitto presso proprietari privati) ha patito delle conseguenze fortemente negative dall’aumento dei prezzi verificatosi nel boom degli anni 2000. Prezzi che a ridosso del picco più espansivo registrato nel 2006/2007, risultano cresciuti in misura assolutamente non comparabile con la dinamica delle retribuzioni (vedi :6^ rapporto famiglia-reddito-casa a cura della UIL): tra 2000 e 2006 i valori immobiliari di compravendita, mediamente a livello nazionale, sono aumentati del 51%; nelle grandi città del 65%. Con punte del 139% a Firenze; 97% a Roma; 77% a Torino. 

La crescita del valore di mercato delle abitazioni ha trainato le attese di redditività per i proprietari di alloggi da locare. Anzi, si potrebbe quasi dire che il carattere speculativo ha ancor più segnato questo segmento del mercato immobiliare più del valore delle case, se si considera che il tasso di rendimento dei nuovi affitti (in particolare nelle città dove è più consolidato)  è aumentato tra la fase iniziale e quella di picco del ciclo del 49% nella media nazionale e ben dell’85% nelle grandi città. Con picchi del 140% a Venezia; 105% a Napoli; oltre il 90% a Milano e Roma. Insomma, tassi di crescita addirittura superiori a quelli registrati dai prezzi degli immobili.

E’ già qui evidente come il rapporto fra il costo dell’abitare e la retribuzione da lavoro abbia oltrepassato per molti il limite della sostenibilità. Ma per quanti? Un rapido calcolo: se il livello dei canoni di locazione sullo stock delle abitazioni in affitto era  stimato nel 2005 pari a 5,3 euro per mq al mese ne deriva che, per un alloggio di 75mq. i canoni di locazione medi erano  pari a 400 euro al mese, la media di oggi nelle città capoluogo è di 580 euro, a Roma ad esempio il canone si “mangia il  62% del reddito”. ( Secondo l’Istat nel 2008 il canone di locazione medio in Italia è pari a 362 euro, per altri osservatori è più alto: Nomisma stima sempre al 2008 450 euro mensili; naturalmente il livello medio si alza significativamente nel centri urbani, abbondantemente duplicandosi ). La riflessione è quindi svolta su un valore prudenziale. E’ quindi per difetto.

Nella nostra analisi, in relazione al reddito netto e al numero delle famiglie in locazione risulta che l’incidenza media del costo dell’affitto sul reddito netto nel 2005 era  intorno al 24%,  con un picco medio del 47% per coloro che rientrano nella classe di reddito fino a 10mila euro.

Usualmente si considera una incidenza dell’affitto sul reddito pari al 30% come limite entro il quale una famiglia entra in tensione finanziaria.

 

Un calcolo sulla base di informazioni Istat (sulla povertà relativa e assoluta) e Banca d’Italia (sulle fasce di reddito per titolo di godimento) ci porta a stimare già nel 2005, una situazione di difficoltà economica per 1.355.000  famiglie in affitto presso proprietari privati.

Non solo: laddove si stimi che in funzione delle durate contrattuali nel settore privato si abbiano annualmente oltre 750mila rinnovi contrattuali annuali a valori tendenti a quelli del mercato, si presume che fra il 2005 e il 2007, con un incremento annuale in linea con quelli degli ultimi anni (8% annuo), l’incidenza dei canoni sui redditi delle famiglie in fase di rinnovo contrattuale si attesti in media al 32,2%, con un picco del 65,9% per le famiglie con redditi inferiori ai 10mila euro.

La media degli affitti dello stock abitativo nel 2007 si attesterebbe al 26% con punte del 52% per le classi di reddito familiare netto fino a 10mila euro e del 31% per le classi di reddito comprese da 10 e 20mila euro (con crescita del reddito stimata in base al tasso di inflazione previsto).  Ma il dato ancor più drammatico riguarda coloro che per la prima volta entreranno nel mercato della locazione nel prossimo biennio. Costoro troveranno una situazione di mercato nella quale l’incidenza dei canoni di locazione sul mercato libero (salito a 7,4 euro mq./mese in media) sarà pari al 32% del loro reddito medio familiare netto, ossia ad un livello definibile “fragile” ai fini del mantenimento di un livello di vita dignitoso.  In altri termini, nel 2007, saranno circa 1.760.000 le famiglie in condizione di forte inadeguatezza reddituale rispetto alla spesa per la casa in locazione.

 

Tabella 7. Stima delle famiglie in condizioni di disagio economico (2005 e 2007)

Classi di reddito familiare netto (euro)

N° famiglie in affitto privato

Famiglie con rapporto canone/reddito

superiore al 30%

 

nel 2005

 

nel 2007

 

% su famiglie

fino a 10mila

668.500

668.500

668.500

100%

da 10mila a 20mila

1.233.500

616.750

907.300

74%

da 20mila a 30mila

680.500

68.050

148.200

22%

da 30mila a 40mila

391.800

2.000

34.260

9%

oltre 40mila

239.200

-

-

0%

Totale

3.213.500

1.355.300

1.758.260

55%

Elaborazione CRESME su dati Banca d’Italia, ISTAT

 

D’altro lato se si fa riferimento ai dati di Banca d’Italia,  che nelle sua storica indagine alla famiglie rileva il valore del canone medio pagato in Italia negli ultimi 30 anni , si nota che l’affitto annuo medio a prezzi deflazioni su base 2008, è passato dai 1.662 euro del 1978 ai 4.007 del 2008 , con un incremento del 141%.

Nel periodo 1977-83 la quota di famiglie in disagio  - l’affitto che incide superano del 30% il reddito- era pari al 3%, nel corso del periodo 2000-2006 la percentuale è salita al 21,5%, e nel 2008 , la percentuale di nuclei famigliari sofferenti è salita al 25,2%.

 

E l’edilizia pubblica dov’è ?

 

E se le risorse pubbliche del Fondo sociale per l’affitto si è fortemente  ridimensionato  le cose stanno ulteriormente  peggiorando, come abbiamo visto, anche la produzione edilizia pubblica vedeva ridurre significativamente il suo ruolo.

L’analisi della produzione edilizia degli anni 2000, confrontata con l’analisi della la nuova produzione residenziale, ha visto questa tornare ai livelli del boom degli anni ’70, soprattutto in termini di promozione immobiliare professionale. Il picco si tocca nel 2007 quando le nuove abitazioni prodotte sono 338.000, nel 1999 erano state 193.000.  Sono in gran parte edifici pluri-familiari, abitazioni spesso piccole. Tra 45 e 75 mq2.

Ma in questa grande produzione,  tra la promozione immobiliare emerge un vuoto, una assenza: quella del settore pubblico.

Nel 1984 il settore pubblico vedeva realizzate direttamente, in forma sovvenzionata, 34.000 abitazioni destinate all’edilizia economico e popolare,  nel 2006, secondo Federcasa gli alloggi ultimati sono stati 4.859.

Nel 1984 venivano realizzate attraverso i regimi dell’edilizia agevolata o convenzionata 56.000 abitazioni: nel 2004 si scende a 11.000 abitazioni.

Il settore pubblico a partire dalla seconda metà degli anni ’80 si ritira sostanzialmente dal terreno dell’edilizia economica e popolare e riduce il peso dell’edilizia agevolata e convenzionata.

 

 

Tabella 8. Alloggi Pubblici realizzati dagli ex IACP in Italia

 

2001

2002

2003

2004

2005

2006

APPALTATI

         7.145

       10.190

         8.066

         8.529

         5.061

         5.249

ULTIMATI

         8.935

         6.817

         6.267

         8.771

         3.745

         4.859

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte Federcasa

 

 

La triste storia della cartolarizzazione del patrimonio pubblico e degli enti previdenziali: come vendere 74.000 alloggi con due cartolarizzazioni rimettendoci

 

Negli anni 2000, poi, anche un’altra voce dell’offerta d’affitto, è interessata da un processo di “ritirata dal mercato”. Riguarda il ruolo storico degli enti previdenziali nel nostro paese. Negli anni 2000  non solo gli enti previdenziali non investono più in edilizia residenziale da mettere in affitto come nel passato, ma sono interessati dal una eccezionale manovra di dismissione del patrimonio pubblico (vedi appendice per il quadro analitico dettagliato).

Nella sostanza il procedimento di cartolarizzazione che prende piede negli anni 2000 è abbastanza semplice: il portafoglio immobiliare degli enti previdenziali viene nominalmente conferito a società veicolo appositamente creata; la società veicolo emette titoli obbligazionari, collocati presso investitori istituzionali e garantiti dagli immobili stessi, attraverso i quali ottiene i capitali per anticipare i futuri realizzi di vendita; la società veicolo versa la quota di futuro realizzo in conto tesoreria dello stato a valere sulle competenze degli enti; la società veicolo inizia l’attività di vendita degli immobili; la società veicolo utilizza i flussi di cassa dovuti alla vendita degli immobili per remunerare i possessori delle obbligazioni, coprire i costi dell’operazione, versare agli enti previdenziali la quota rimanente del valore degli immobili.

E’ vero che molte delle possibilità previste dalla legge autorizzativa (410/2001 e dl 41/2004) erano già previste dal decreto legislativo 104 del febbraio 1996 (ricognizione del patrimonio pubblico, affidamento in gestione a soggetti specializzati, vendita degli immobili, conferimento nei fondi immobiliari, conferimento in fondi pensione).

La cessione degli immobili residenziali era stata denominata Programma Ordinario di Cessione (POC) mentre, il Programma Straordinario di Cessione (PSC) prevedeva la vendita degli immobili non residenziali che dovevano essere ceduti in blocco (ogni edificio un lotto di vendita).

Sulla base delle opportunità offerte dal d.lgs. 104, le alienazioni di immobili appartenenti agli enti pubblici erano, quindi, già iniziate al momento dell’introduzione del decreto 351/2001 poi convertito nella già citata legge 410/2001. Per la verità, sebbene il D.lg. 104 sia del 1996, le vendite di immobili sono iniziate nel 2001 interessando, nei dieci mesi di dismissioni pre – cartolarizzazione, circa 10.700 abitazioni e oltre 70 interi immobili non residenziali, per un incasso complessivo di oltre 1,4 miliardi di Euro.

Le quantità in gioco nel Piano Ordinario di Cessione evidenziano 36.420 unità residenziali principali (al netto delle pertinenze), cedute in massima parte ai locatari e 74 unità immobiliari non residenziali, cedute tramite vendite all’asta nel periodo che intercorre tra il 1996 e il 2001.

Di tale patrimonio, alla data di entrata in vigore della legge sulle cartolarizzazioni, risultava già alienato il 32,3% del comparto residenziale pari a 11.773 abitazioni. L’incasso complessivo certificato dall’Osservatorio sul Patrimonio degli Enti Previdenziali, dell’allora Ministero del Lavoro, consta di poco meno di 1,1 miliardi di ? per un incasso medio di poco inferiore ai 90 mila Euro per alloggio

Nel dettaglio per Ente proprietario si può rilevare che il patrimonio più ingente fa capo all’INPDAP (16.328 abitazioni), all’INAIL (11.270 abitazioni) e all’INPS (2.362 abitazioni), a cui verrà conferito nel 2003 il patrimonio INPDAI (4.897 abitazioni) a seguito della soppressione di quest’ultimo. Solo l’IPSEMA, alla data di entrata in vigore delle cartolarizzazioni, non aveva ancora venduto immobili residenziali e l’INPS ne aveva alienato una quota minima (4,9% al prezzo medio di vendita di poco più di 65 mila ?).

 Gli altri Enti si collocavano tra il 14,4% dell’ENPALS (prezzo medio di vendita di 68.500 ?) e il 37,4% dell’INPDAP (prezzo medio di vendita di 95.600 ?).

Come è noto negli anni 2000 il processo di cartolarizzazione è stato attuato in due fasi. La prima cartolarizzazione ha interessato circa 24 mila abitazioni appartenenti agli enti previdenziali ai quali si sommava la quota residua di immobili non venduti attraverso i programmi di cessione degli edifici residenziali (POC) e non residenziali (PSC che riguardava interi edifici) per un totale di circa 26 mila lotti immobiliari.

La seconda cartolarizzazione prevedeva un numero di immobili più che doppio rispetto alla prima con quasi 63 mila cespiti suddivisi in oltre 53.200 abitazioni e più di 9.600 immobili non residenziali (la cui vendita è stata gestita dal Consorzio G1 formato da Fintecna e Lazard Real Estate).

Come era già avvenuto nella precedente vendita, il numero maggiore di immobili risulta di proprietà dell’INPDAP (quasi 26.500 abitazioni pari al 49,7% del totale) e dell’INPDAI (18.600 abitazioni pari al 35,0%).

 

Gli esiti non felici delle due cartolarizzazioni (al 2007)

 

Va detto che per valutare i risultati complessivi delle operazioni di cartolarizzazione (SCIP1 e SCIP2), aggiornati all’ultimo periodo disponibile, l’analisi del CRESME ha operato una lieve forzatura completando i dati con l’utilizzo di bilanci relativi a due annualità (2006 e 2007) e con l’utilizzo degli Investor Report pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tale procedimento dovrebbe risentire di una contenuta sottovalutazione dei risultati poiché mancano i dati al 2007 per due soli Enti (pur mancando l’INPDAP) relativamente alla SCIP1 mentre, i dati SCIP2 sono stati completati per tutte le annualità.

 

Il bilancio dell’operazione SCIP 1 si presenta positivo in termini economici ma negativo in termini patrimoniali e di costo / opportunità.

La mera somma algebrica del prezzo di vendita complessivo al termine del 2007 e del prezzo iniziale trasferito indicano un valore positivo per circa 210 milioni di Euro. Ma il risultato economico positivo non comprende le spese di mantenimento della SCIP, le commissioni da versare agli advisor e gli interessi da pagare agli investitori.

Non è detto, infatti, che i circa 300 milioni di Euro trattenuti in origine dalla SCIP sul prezzo iniziale trasferito (2,3 miliardi di emissioni titoli contro circa 2,2 miliardi di prezzo iniziale trasferito in due tranches) siano stati sufficienti a coprire tutte le spese dell’operazione.

 PER SCIP 1..Se il risultato economico è positivo, il risultato patrimoniale è da considerare fallimentare poiché, a fronte di un patrimonio dismesso valutato 5,1 miliardi di Euro, l’incasso complessivo si è fermato a circa 2,4 miliardi di Euro. In sostanza il patrimonio immobiliare si riduce di 5,1 miliardi potenziali,  la cassa si incrementa di 2,4 miliardi, con una perdita di patrimonio pari a     -2,7 miliardi di Euro.

 


 

Tabella 9. -Risultati vendite SCIP 1

 

Totale portafoglio originario

 

Vendite al 31.12.2006

 

Vendite al 31.12.2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ente

n.

unità

Valore
(milioni)

prezzo iniziale trasferito

 

n.

unità

%

Prezzi

di vendita

 

n.

unità

%

Prezzi di vendita

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ENPALS

553

73,59

28.919.504,44

 

n.d.

-

38.778.930,76

 

n.d.

-

38.860.019,65

INAIL

7.990

1.224,37

481.060.997,98

 

7.650

95,74

665.758.260,15

 

7.764

97,17

683.078.117,15

INPDAI*

6.936

975,08

380.939.679,00

 

6.555

94,50

390.422.566,30

 

6.629

95,57

410.761.905,47

INPDAP

12.075

2.291,21

894.510.189,03

 

10.784

89,31

998.334.092,75

 

n.d.

-

n.d.

INPS

2.272

398,54

155.566.989,40

 

2.244

98,77

173.802.479,55

 

2.244

98,77

173.802.479,55

IPOST

744

95,00

37.296.188,48

 

717

96,37

61.879.390,00**

 

724

97,31

62.546.278,13

IPSEMA

117

41,71

16.155.033,51

 

n.d.

-

n.d.

 

n.d.

-

n.d.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Totale

30.687

5.099,50

1.994.448.581,84

+ 200 milioni

corrisposti a

marzo 2002

 

27.950

91,08

2.328.975.719,51

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte: elaborazione Cresme su dati di bilancio degli Enti

*L’INPDAI riporta in maniera aggregata le vendite sia delle unità principali che di quelle accessorie, mentre il portafoglio originario riportato dal MEF tiene conto solo delle principali; pertanto il portafoglio originario Inpdai (comprensivo anche delle unità secondarie) è stato ricalcolato in base a quanto espresso nel bilancio  al 31.12.05 in cui si specifica che le unità vendute sono risultate n. 6.419, valore “pari al 92,54% delle unità oggetto di cartolarizzazione”.

** l’incasso è a giugno 2007

 

Il bilancio dell’operazione SCIP 2 si presenta negativo sia in termini economici, sia in termini patrimoniali e di costo / opportunità. La differenza tra le somme incassate dalle vendite (integrate dal “riacquisto dell’invenduto da parte degli Enti) e il prezzo iniziale trasferito (pari all’85% del valore di stima), indicano un valore negativo per circa 0,6 miliardi di Euro.

Anche in questo caso, il risultato economico non comprende le spese di mantenimento della SCIP, le commissioni da versare agli advisor e gli interessi da pagare agli investitori. A fronte del risultato economico negativo per 0,6 miliardi si rileva un risultato patrimoniale ancora peggiore benché proporzionalmente meno fallimentare rispetto alla SCIP 1.

A fronte di un patrimonio dismesso valutato 7,8 miliardi di Euro, l’incasso complessivo è risultato pari a circa 4,3 miliardi di Euro a fine 2007 ma, diversamente da SCIP 1, esiste una elevata quota di immobili invenduti (22.000 stimati a fine 2007).

Per valutare il risultato in termini patrimoniali è necessario ricorrere alla stima del valore degli immobili non venduti che tornano di proprietà degli Enti a titolo oneroso (circa 1,7 miliardi da versare alla SCIP da parte degli Enti).


Tabella 10. -Risultati vendite SCIP 2

 

Totale portafoglio originario

 

Vendite al 31.12.2006

 

Vendite al 31.12.2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ente

n.

unità

Valore

prezzo iniziale trasferito

 

n.

unità

%

Prezzi

di vendita

 

n.

unità

%

Prezzi di vendita

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ENPALS

170

57.007.912

48.381.137

 

125

73,53

47.530.630

 

125

73,53

48.647.573

INAIL

6.912

1.283.674.758

1.087.581.445

 

3.106

44,94

468.448.712

 

3.559

51,49

601.947.687

INPDAI

20.505

2.316.019.921

1.981.409.121

 

7.289

35,55

707.610.059

 

9.911

48,33

960.921.907

INPDAP

31.149

3.376.690.418

2.863.102.890

 

18.865

60,56

1.616.457.846

 

24.474

78,57

2.274.950.332

INPS

3.277

654.224.331

556.714.451

 

2.080

63,47

342.755.040

 

2.183

66,62

371.309.240

IPOST

157

34.452.538

29.823.988

 

78

49,68

19.745.364

 

78

49,68

20.222.790

IPSEMA

286

38.568.043

32.475.010

 

178

62,24

23.439.845

 

195

68,18

25.979.779

Stato Italiano

424

36.465.680

31.149.499

 

302

71,23

26.229.826

 

302

71,23

26.229.134

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Totale

62.880

7.797.103.601

6.630.637.540

 

32.023

50,93

3.252.217.321

 

40.827

64,93

4.330.208.441

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte: elaborazione Cresme su dati di bilancio degli Enti

In corsivo: dati calcolati in base a quanto riportato negli Investor Report trimestrali, in quanto non deducibili dai bilanci

 

Il valore stimato dei 22 mila immobili non venduti risulta di poco superiore ai 2,7 miliardi di Euro che, sottraendo l’importo da versare alla SCIP di 1,7 miliardi, evidenzia un recupero per il patrimonio di circa 1,0 miliardi. Pur valutando tale recupero di patrimonio, il risultato dell’operazione SCIP 2 è negativo per quasi 2,5 miliardi di Euro.

Uno schema conclusivo può essere utile a rendere più immediata la lettura di quanto detto nell’ultimo paragrafo relativamente al bilancio costi benefici delle operazioni di cartolarizzazione: una perdita di circa 400 milioni di Euro per la Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici e una riduzione di 5,2 miliardi di Euro per il patrimonio pubblico come saldo tra gli incassi e il valore di stima del patrimonio immobiliare alienato.

Fonte: elaborazione Cresme su dati Corte dei Conti, MEF, ASNODIM

 

Una descrizione di scenario

 

Il carattere eccezionale degli anni 2000 è quindi un carattere demografico che si traduce in termini di domanda abitativa nella crescita sorprendente del numero delle nuove famiglie. Una eccezionale domanda primaria di abitazioni ha caratterizzato gli anni 2000. Secondo i dati anagrafici dell’Istat, la crescita delle famiglie è dovuta prevalentemente alla crescita di famiglie formate da un solo componente.

 Ma in realtà questo dato di crescita così sorprendente è il risultato di vari fattori, alcuni prodotti da dinamiche propriamente demografiche, altri da fattori amministrativi. “Saldi di carta”, “dinamiche virtuali”, potremo dire.

Quindi è un dato che va letto con prudenza, e occorre un lavoro di stima attento. I fattori demografici che possiamo individuare , e sono quelli che più ci interessano, sono almeno tre, e tutti molto importanti:

·         l’accelerazione dei flussi migratori verso il nostro paese,

·         il cambio di scala nei flussi di immigrazione negli anni 2000;

·         la forte crescita di nuove famiglie italiane (dovuta ai ‘pigri’  figli del baby boom della seconda metà anni ’60 e della prima metà anni ’70, che con ritardo rispetto alle generazioni precedenti hanno lasciato le famiglie di origine; la continua riduzione della dimensione media della famiglia italiana. Famiglie sempre più piccole. Perché si fanno pochi figli, perché non se ne fanno e perché si vive da soli)

La ripresa del numero delle nuove famiglie italiane è da mettere in relazione con la storia demografica del paese e con i cambiamenti dei comportamenti sociali dei nostri anni, in particolare sulla base dei parametri della permanenza dei giovani nelle famiglie di origine e dell’età di formazione dei nuovi nuclei familiari.

Ancora negli anni settanta i giovani uscivano dalle abitazioni dei genitori per “vivere soli” molto presto: tra i 18 e i 25 anni. Gli studi di sociologi e demografi dimostrano come oggi i giovani restino nella casa dei genitori per molto più tempo: molti “emigrano” dalla famiglie di origine solo nella fascia di età tra i 30 e i 39 anni.

Gli studi finiscono più tardi, i genitori sono cambiati e a casa si adeguano alle esigenze dei figli, trasformandosi in ‘servitori’ non invadenti, le donne fanno figli sempre più tardi e l’Italia si scopre paese di ‘primipare tardive” e di “padri tardivi”.

Questo fenomeno sociale, combinato con la storia dei tassi di natalità fa sì che nella seconda metà degli anni ’90 e in questi primi anni 2000 si densifichi un fenomeno particolarmente interessante per le analisi del mercato immobiliare: la preponderanza significativa sulle altre fasce d’età della popolazione dei 30-39enni.

Si tratta di una vera e propria onda che  tocca il suo picco nel biennio 2002 -2003 e dal 2004 comincia a rifluire.

Un reflusso che sarà prima lento, poi molto più veloce. Con una accelerazione già dal 2007. Nel 1991 vi erano 8 milioni di persone in questa fascia d’età, diventano 9 milioni nel 1997, per poi salire ancora a poco meno di 9,5 milioni nel 2002, stabilizzandosi e dal 2004 iniziare a ridiscendere: saranno 9 milioni di persone nel 2007, 8 milioni nel 2012, 7 milioni nel 2016.

Gli effetti sul mercato immobiliare di questa onda sono particolarmente rilevanti: la fascia di popolazione tra i 30 e i 39 anni è quella che, nel nostro paese, esprime ormai la maggiore propensione alla creazione di nuove famiglie e alla ricerca di una casa.

 L’onda del Baby Boom giunta l’età della fuoriuscita dalle famiglie di origine, ha in sostanza impattato sul mercato immobiliare, contribuendo ad alimentare una crescita sostenuta della domanda primaria autoctona di abitazioni che negli anni ’80 e nei primissimi anni ’90 si considerava ormai superata. Ma è una domanda che dal 2004 refluisce.

 

La domanda di sostituzione e la bolla immobiliare

L’eccezionale crescita della domanda primaria, sospinta dalla forte crescita dei nuclei famigliari (famiglie più piccole, baby boom italiano e immigrazione), non bastano a spiegare il boom immobiliare. Non bastano a spiegare l’eccezionale incremento del numero delle compravendite, le dimensioni del fenomeno.

Per spiegare il fenomeno dobbiamo fare ricorso ad altre componenti: la domanda di sostituzione,  il modificarsi del lavoro nel rapporto tra residenza e luogo dell’attività, il modificarsi dell’uso dello spazio urbano, e infine la domanda di investimento, la speculazione. Il 50% delle compravendite ha a che fare con il tema della qualità e della sostituzione.

Sono le famiglie che già possiedono la proprietà di una abitazione e che in questi anni 2000, di difficoltà, di incertezza, hanno deciso di vendere per comprare qualche cosa di maggiore qualità, di maggior valore.

 Qualcosa di più grande, qualcosa di più silenzioso, qualcosa di più centrale o di più ‘verde’. Una salto di qualità, un “upgrading”: una parte delle famiglie italiane si è rifugiata nel mattone vendendo la vecchia casa e comprandone una di maggiore qualità. E qui sta una parte del boom del mercato, qui sta la crescita esponenziale dell’intermediazione immobiliare. 

All’elenco completo degli attori del boom immobiliare mancano ancora alcuni attori della domanda e dell’offerta: gli investitori dell’immobiliare (grandi e piccoli); i promotori immobiliari. E certo in questa partita hanno giocato un ruolo centrale le condizioni di credito ( le Banche) .

 La figura imprenditoriale “nuova” dell’Italia della prima metà degli anni 2000 è, non a caso, è stata “l’immobiliarista”, l’investitore in immobili. Le pagine dell’economia e della cronaca degli organi di informazione hanno descritto situazioni diverse e complesse ma tutte hanno dovuto fare i conti,  nel bene e nel male, con la sola figura  emergente del ciclo economico italiano degli anni 2000.

Se ne sono accorti alla fine del ciclo, quando queste figure, hanno diversificato le ricche plusvalenze del ciclo espansivo del compra e rivendi immobiliare in altri settori, o sono stati imbrigliati dalla stessa speculazione avviata. Ma, in fondo, l’immobiliarista è ciò che ha cercato di fare anche quella buona parte di famiglie italiane che ha potuto: hanno investito nel mattone, forse per darlo in affitto, forse per rivenderlo presto o poi, certo per guadagnare, per ottenere una rendita.  Così è stato per le economie sommerse e illegali: la casa è stata il “business  per tutti”, degli anni 2000. Così è stato per molti imprenditori che a latere della propria attività hanno diversificato,  creando nuove società immobiliari.

Anzi, in alcuni casi nell’immobiliare sono state investite le risorse che non sono state investite nelle attività produttive in difficoltà nella competizione internazionale. E gli investimenti in immobili sono cresciuti in modo sorprendente.

A ben vedere possiamo leggere la dinamica del mercato anche come un salto di scala , un upgrading, per la condizione abitativa di una gran parte del paese. Ma si è trattata di una partita per già proprietari di case o per chi, per capacità di reddito o di credito, è  stato in grado di giocare la  partita del rialzo. La quota che cerca maggiore qualità vende il bene di minor qualità ad una nuova domanda che viene dal basso, che lo raccoglie: è la domanda che viene dalle nuove famiglie, e in particolare dalle nuove famiglie straniere. Ma non tutto funziona. In questo scenario è  infatti cresciuta una quota di domanda che “non è stata in grado di farcela” : nuove famiglie con redditi bassi o medio-bassi (italiane e straniere), famiglie in condizioni di disagio abitativo (sovraffollamento, coabitazione, in sistemazione precaria), famiglie in affitto monoreddito che hanno visto schizzare verso l’alto i propri affitti. Forse la vera polarizzazione di questi anni in Italia è stata tra chi ha una casa in proprietà e chi non ce l’ha.

La crisi economica ha certo accentuato questa situazione accrescendo, con al crescita delle famiglie in difficoltà l’emergenza abitativa:  difficoltà a pagare l’affitto, difficoltà a pagare i mutui.

 

Elementi di sintesi per una riflessione di politica abitativa  e scenari di mercato

Abbiamo vissuto in questi anni 2000 una fase di forte crescita della domanda. Si tratta di una domanda che è in primo luogo ‘primaria’, vale a dire fatta di nuove famiglie (autoctone e extracomunitarie) che cercano una propria casa: in affitto, ma anche da acquistare.

Le dimensioni di questa domanda sono state sorprendenti, da anni ’70 più che da anni 2000.

A questa forte domanda ‘primaria’ si è affiancata la domanda di investimento e quella “di sostituzione” che hanno aiutato un mercato immobiliare, già vivace per la domanda primaria, a crescere con modalità sorprendenti, ‘storiche'; e soprattutto una condizione di accesso al credito particolarmente favorevole che ci ha riportato agli anni ’60.

La crescita è stata prima in termini di compravendite, poi nei prezzi delle abitazioni. Ma nel 2007 i prezzi degli immobili hanno toccato massimi storici.

Tanto che nella storia del nostro paese non si sono mai toccati livelli così alti nel rapporto tra reddito necessario per l’acquisto e valore della casa.

La crescita c’è stata anche nel valore dell’affitto, soprattutto nelle grandi aree urbane.

Le aree dove si concentra il mercato dell’affitto. Dal 1998 al 2008 nelle grandi città italiane i prezzi degli affitti in valori costanti sono cresciuti dell’85%.

In questa fase ciclica,  alcune fasce della domanda sono state penalizzate.

Si tratta delle fasce più deboli, in gran parte quelle che si rivolgono all’affitto rispetto alla proprietà. In sostanza la crescita sorprendente del mercato immobiliare ha aumentato il numero di famiglie che con difficoltà riescono ad accedere al bene casa..

A fronte della crescita della domanda, dei prezzi, delle compravendite, delle nuove costruzioni private, e della crescente difficoltà di accedere all’affitto, l’offerta ha visto ‘scomparire’ nella sostanza una tradizionale funzione pubblica: l’edilizia sovvenzionata  è ‘evaporata’.

L’intervento pubblico nel mercato abitativo si è molto ridotto in termini di risorse, e, allo stesso tempo, ha scelto altre strade, quelle del sostegno diretto alla famiglia, attraverso le varie forme di “buoni casa” che si scontrano con i prezzi alti del mercato.

La “questione abitativa” è così tornata a far parlare di sé, attraverso quattro declinazioni: l’emergenza dei senza casa e degli stranieri, che ha riportato nelle nostre città la questione delle occupazioni e delle baraccopoli; l’emergenza della fascia più debole della popolazione residente,  che è cresciuta con la crisi economica e con il boom immobiliare, e si esprime affollando i bandi per le graduatorie dei  ‘buoni casa’ e della residua edilizia economica popolare; l’emergenza di una fascia di domanda che vede e vedrà aumentare il peso dell’affitto sul proprio reddito, e quindi, l’emergenza di una domanda media o medio-bassa che  registrerà un significativo peggioramento della propria condizione abitativa; e infine una domanda di non proprietari, che si scontra con i picchi troppo alti dei prezzi che l’attuale fase di mercato sta vivendo.

E’ evidente come in questo contesto  debbano emergere nuove linee di intervento da parte del soggetto pubblico da mettere in atto nei prossimi anni.

Queste nuove linee di intervento dovranno a nostro avviso rispondere a tre emergenze che derivano dall’analisi della domanda: la salvaguardia di un mercato della casa in affitto per le famiglie a basso reddito (autoctone e extracomunitarie); l’ampliamento di un mercato dell’affitto per le famiglie a reddito medio e medio-basso, che non hanno casa di proprietà, a ‘prezzi’ ragionevoli; l’ampliamento del mercato dell’offerta di alloggi da compravendere a prezzi calmierati rispetto agli eccessi della fase ciclica immobiliare.

Il centro di queste questioni è il tema delle risorse. Nessun paese in Europa oggi spende così poco per la casa come l’Italia. Secondo i dati Eurostat nel 2004 si spendevano per l’housing sociale 369 euro nel Regno Unito,  prima posizione,  e in Francia se ne spendevano 203.

In Spagna, modello mediterraneo, 90 % di famiglie che vivono in abitazioni proprietà,  la spesa era di 30 euro. In Italia, ultima della classifica europea, la spesa è stata di 5 euro per abitante. La questione del debito pubblico rende il tema risorse delicato.

Certo una azione nazionale serve, va sviluppata una nuova politica abitativa. Ma una strada può essere trovata anche a livello locale.

E’ però necessario fare i conti.

Una indagine realizzata dal CRESME per ANCAB nel 2008, sui fattori di produzione delle nuove abitazioni e sui prezzi di vendita, in un campione di undici città italiane ha evidenziato i seguenti elementi:

  • un divario contenuto nei costi di costruzione nelle diverse aree urbane, e per le diverse tipologie. Il costo di costruzione puro rilevato dall’indagine va dai 700 ? a mq di superficie commerciale ai 1.000 ?. ;
  • due diverse tipologie di oneri di urbanizzazione: un gruppo di città che si è ormai attestato intorno ai 200 ?   a m2 (le città ‘arte) e un altro che si colloca tra i 110 e i 120 euro;
  • una particolare diversità, geografica e territoriale urbana, sul valore delle aree edificatorie: si va da un minimo di 400 euro a m2  di superficie commerciale a massimi di 1.200 euro;
  • una eccezionale diversità per quanto riguarda i prezzi del mercato: i valori medi stimati per  mq di superficie commerciale vanno da 2.600 ? al m2 a 6.000.

L’analisi dei fattori di produzione e dei prezzi di vendita, ai quali sono stati aggiunti gli oneri finanziari e i costi di commercializzazione e gestione, evidenziano situazioni profondamente diverse di redditività: i casi evidenziano come la redditività di investimento nella promozione immobiliare  possa passare da dal 30 al 320%.

Un plusvalore sorprendente che dovrebbe avere per la comunità due ritorni: la qualità del prodotto edilizio e del nuovo insediamento e una quota di valore da destinare a chi non ce la fa.  Si può dire, senza paura di essere smentiti, che ben poco di questo grande plusvalore è ritornato alle città. In sostanza la negoziazione urbanistica e soprattutto le amministrazioni pubbliche devono imparare a far meglio i conti.

Un nuova politica abitativa che definisca nuove risorse centrali, da destinare all’housing sociale nella sua complessità, è quindi un tema chiave della situazione attuale che deve essere integrata da una nuova capacità dell’ente locale di fare i conti sul proprio territorio. In termini di individuazione e caratterizzazione della domanda abitativa e in termini di risposta attraverso la negoziazione consapevole delle diverse redditività di mercato.

Si tratta anche di considerare che lo scenario che ha caratterizzato gli anni 2000 è cambiato: con il 2008,  d’un tratto il terreno è franato sotto i piedi del mercato immobiliare, la crisi finanziaria generata dallo scoppio della bolla speculativa statunitense che poggiava sulla costante crescita del valore delle case negli Usa, base della piramide che sosteneva il valore dei titoli ‘tossici’  distribuiti sul mercato globale della provvista,  ha messo in crisi prima il costo del denaro, poi la liquidità e poi l’economia. La crisi immobiliare si è evoluta nella “più grande crisi finanziaria della storia”, e in una delle più gravi recessioni economiche della storia.

E’ soprattutto la crisi delle capacità di spesa della domanda , è soprattutto la crisi della fiducia.

Nel 2008 e nel 2009 è. sparito dal mercato l’investimento,  la sostituzione di vecchio e nuovo si bloccata, e i promotori immobiliari non ritirano le concessioni per costruire,  il nord e il centro del paese si riempiono di invenduto (250 mila case).

Lo scenario è quello di una flessione dei prezzi, ma  anche quello di una crisi che colpisce maggiormente chi era già in difficoltà: chi sta in affitto e chi  è tropo indebitato per la casa. 

La politica abitativa si arricchisce di urgenze e di possibilità: con una certezza,  l’irrational exsuberance  dei primi anni 2000 con difficoltà tornerà. Nella fase nuova di mercato nella quale siamo entrati, la domanda non accontenterà più tutti i modelli di offerta, mentre la partita dell’edilizia sociale si giocherà sul piano del limited profit housing. Una partita da giocare in trasparenza: facendo bene i conti. E soprattutto ripensando al tema della qualità edilizia e insediativa.

Il boom immobiliare che ha interessato l’economia italiana dal 1997 ad oggi si è accompagnato ad un forte incremento dei prezzi degli immobili e degli affitti. Le città sono state sempre più investite da fenomeni da anni ’60: forte crescita della nuova produzione residenziale, ed emergere di una domanda debole con dimensioni diverse da quelle degli anni ’80 o della prima metà degli anni ’90.

La crescita del numero delle famiglie è uno dei grandi temi della società italiana degli anni 2000: frutto del boom demografico della fine degli anni ’60 e degli anni 70; frutto del processo di immigrazione; frutto di una scomposizione dei nuclei famigliari oggi sempre più piccoli. In questi anni 2000  è emersa la trascuratezza e certo l’impreparazione da parte dell’urbanistica e  della politica rispetto ai temi dell’intervento di sostegno al problema casa.

L’Italia è la nazione in Europa che oggi destina minori risorse per la politica abitativa. Ma la questione non è solo quella delle risorse: è proprio quella della necessità di ripensare a nuovi modelli di intervento. La città vive oggi una rilevante questione che riguarda il tema della qualità : la qualità del prodotto edilizio, non quello storico, ma quello delle zone periferiche nelle quali il tempo sembra passare con velocità maggiore a causa della cattiva qualità edilizia ;  la qualità della nuova produzione edilizia che non coglie le nuove esigenze della domanda e della società ; la qualità dell’insediamento, povero nell’integrazione tra progetto edilizio, residenze, attività economiche, servizi, spazi pubblici e mobilità.

Questi fattori della domanda possono essere utilizzati per la definizione di una nuova politica di intervento, in particolare  nelle zone urbane della periferia.

 Così come l’esperienza della 167 nel passato è stata l’occasione per un vera e propria innovazione politica, occorre ripensare una nuova politica di intervento. Le esperienza europee più avanzate evidenziano una significativa evoluzione dei modelli di offerta basati sui seguenti elementi: la diversificazione dei modelli di intervento e la segmentazione dell’offerta in termini di category management; la qualità del prodotto edilizio e l’attenzione al risparmio energetico; l’integrazione tra costruzioni, servizi, energia; l’applicazione del concetto di life time value; l’applicazione del concetto di gestione e manutenzione non del solo edificio ma degli insediamenti (global service per l’insediamento); il concetto di equilibrio tra costruito, ambiente e territorio.

La nuova politica di Housing sociale, basata sui fondi immobiliari e sui principi che la Casa Depositi e Prestiti, sembra orientata a sviluppare possono rappresentare se avviata nei tempi brevi, una risposta all’emergenza e all’innovazione , ma manca di un elemento essenziale il confronto e la verifica con le parti sociali.

In sostanza esiste un spazio per una nuova politica abitativa che trova radici produttive nell’evolversi della domanda. Si tratta di pensare a forme di intervento che definiscano modelli di offerta giocati sul concetto di servizi totali integrati. 

 

 

Pensiamo a modelli di offerta integrati per un determinato insediamento: fatto di servizi agli edifici, di  servizi alle persone, di servizi allo spazio,  di servizi pubblici e sociali che possono essere privatizzati, di servizi alla qualità della vita; di interventi di riqualificazione, di nuovi interventi di spazi pubblici, di demolizioni (nel caso servisse), di potenzialità di nuove costruzioni, di nuove tipologie edilizie, di nuovi standard tecnologici.

Pensiamo al welfare dell’abitare che diviene elemento cruciale di inclusione nella nostra società rappresentando la soglia oltre la quale c’è l’emarginazione!

Ecco il perché del titolo del convegno e la risposta all’analisi effettuata e posta all’inizio è: la totale assenza di una politica sociale per la casa.

Sollecitiamo un modo nuovo di intervenire che poggi le sue basi su una visione più ampia e sulla possibilità di fare i conti, tra risorse pubbliche e risorse private,  definendo gli obiettivi delle prestazioni. I criteri chiave di questa nuova filosofia sono quelli del partenariato pubblico e privato da un lato (con il project financing come modello base) e del facility management dall’altro. Su questi due piani si gioca la partita del secondo decennio degli anni 2000.



[1] A, Tosi,  Le condizioni abitative, in: Dieci anni di immigrazione in Lombardia. Rapporto 2009, Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2010, pp. 353-364

 Scarica il pdf della Relazione di F Pascucci.pdf 

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