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IL VOTO AL SUD. Un’interpretazione

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L’affermazione dei 5 Stelle al Sud, nella consultazione elettorale del 4 marzo 2018, potrebbe non essere altro che l’atto conclusivo di un dramma già consumatosi nei decenni scorsi, quando si avviò la rottura del sistema politico della Prima repubblica ad opera della Lega Nord e la progressiva sostituzione della “questione meridionale” con la “questione settentrionale”. Quali connessioni potrebbero esserci, non solo politiche ma anche culturali, tra queste due vicende? Quali elementi di continuità nella costruzione di una peculiare visione dell’Italia e della sua storia nazionale? Si è trattato di una regressione antropologica a forme antiche di ribellismo o è stato, invece, un adeguarsi ad un cambio di ceto dirigente dato ormai per scontato a seguito dell’esaurirsi definitivo di un intero ciclo storico-politico? So bene che ci sono anche altre ragioni interne ed esterne al Mezzogiorno che hanno determinato l’esito del voto. Ma vorrei seguire questo percorso di ragionamento, questa pista ipotetica, per verificare l’esistenza di aspetti sottovalutati nelle analisi di questi giorni e che potrebbero invece aiutarci a comprendere meglio il successo dei grillini. Come ha scritto il politico e storico Enzo Santarelli, il Mezzogiorno è la vera cartina di tornasole con cui misurare le diverse interpretazioni della storia nazionale. E allora vediamo se anche in questo caso, tale criterio funziona.

La questione settentrionale

La nascita della Lega Nord è servita a dare risonanza e rappresentazione alla questione settentrionale. Tale problematica e il movimento politico che la sostiene hanno significato, in origine, secessione; divisione dell’Italia in due; insopportabilità, dunque, per il Nord, del peso del Mezzogiorno, improduttivo, preda dell’illegalità criminale, parassita e succhiatore delle risorse del Nord; e poi, collegamento diretto del Nord coi processi di globalizzazione, con le regioni ricche d’Europa; rigetto del problema della formazione di una coscienza nazionale e dello stesso problema di un dualismo italiano, ovvero del tema dominante intorno al quale si era formata la coscienza storico-politica non solo della sinistra ma della stessa democrazia repubblicana.

Per un lungo periodo e per un’ampia parte del Paese, la rappresentazione della storia nazionale era fondata su un principio di unità dell’Italia che si voleva costruire a partire dal Mezzogiorno. Su tale rappresentazione faceva perno l’azione politica dei democratici italiani, delle più diverse origini culturali e politiche. Tra i più insigni si possono citare per i comunisti Gramsci, Sereni, Amendola e lo stesso Togliatti, per il riformismo cattolico Sturzo, Vanoni, Saraceno e Pastore, per i liberal-democratici Dorso, La Malfa, Compagna e Galasso, a cui aggiungere ulteriori personalità come Nitti, Salvemini, Rossi-Doria, Giorgio Ceriani Sebregondi, Olivetti, Carlo Levi, Scotellaro, Zanotti-Bianco, Danilo Dolci e Angela Zucconi, tutti ovviamente con visioni differenti a cui corrispondevano soluzioni diverse. In tale orizzonte, giocava un ruolo preminente la dimensione nazionale della cultura meridionale e dei ceti dirigenti del Mezzogiorno. Naturalmente, nessuno sosteneva la secondaria importanza del Nord rispetto al Sud, ma per essi la vera unità dell’Italia sarebbe nata dal superamento del dualismo. Per essi non ci sarebbe mai stato vero sviluppo del Paese senza lo sviluppo del Mezzogiorno.

Questa idea, che veniva definita da tutti questione meridionale, già negli anni Ottanta aveva incominciato a scricchiolare, a seguito dei fallimenti delle politiche per il Mezzogiorno tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma è da venticinque anni a questa parte che la Lega batte sul tasto di un Mezzogiorno da negare. Un tasto continuamente rimodulato e “civilizzato” nel nuovo linguaggio di Matteo Salvini. E tale insistenza ha sempre trovato oppositori ora soltanto ironici ora deboli e compiacenti, sempre più subalterni, e sicuramente incapaci di una risposta che rovesciasse il rovesciamento.

La questione settentrionale ha così creato anche un sentimento di massa, mostrandosi tutt’altro che inventata a tavolino, ed è un diffuso sentimento di ostilità verso tutto ciò che vuol “entrare” nel Nord dall’esterno, siano insegnanti, impiegati, ecc. creando lo spazio di una secessione di fatto nei sentimenti e nelle relazioni umane.

Come ha scritto diversi anni fa Biagio de Giovanni, la Lega si è collocata dal punto di vista della realtà delle cose, si è fatta tutt’uno con questa, dando coscienza unitaria a forze disperse, malcontente ma rassegnate, d’improvviso riflesse e rappresentate in quel grido di protesta, in quella sollevazione primitiva che segnò la grande discontinuità (dopo quella di Tangentopoli che aveva intaccato solo la forma politica) con la sostanza storica delle analisi fondamentali della Prima repubblica. Su questa base, il Carroccio di Umberto Bossi raggiunse il suo massimo risultato nel 1996, quando ottenne il 10% dei voti nelle elezioni politiche.

La questione settentrionale si mangia quella meridionale

Dopo quella impennata, sembrò ad un certo punto che il fenomeno leghista si indebolisse. L’idea di secessione venne accantonata. Vorrei ricordare, tra le altre, la vicenda delle quote latte, esito tragicomico  di imprevidenze e sciatterie di ministri democristiani, come Filippo Maria Pandolfi, e di rappresentanze agricole arroganti, come la Coldiretti. L’affrancamento dalle quote latte (o comunque una sostanziale riduzione del vincolo) divenne una bandiera di Bossi contro gli “euroburocrati” di Bruxelles e la “politica romana”. La Lega coagulò, in quella occasione, la protesta degli allevatori di diverse regioni italiane non solo del Nord. Nel Lazio capeggiava i Cobas del latte Guido Carandini, proprietario dell’azienda e del castello di Torre in Pietra, detto il “conte rosso” per essere stato deputato del Pci negli anni Settanta. Nel corso di un incontro a Palazzo Chigi con le organizzazioni agricole, Il premier Romano Prodi che presiedeva la riunione, ad un certo punto si allontanò temporaneamente per incontrare una delegazione di agricoltori leghisti, suscitando la ferma e plateale reazione del presidente della Cia, Giuseppe Avolio, che abbandonò la sede della presidenza del Consiglio.

La sinistra immaginava la Lega come una propria “costola” (pare fosse Massimo D’Alema l’ideatore della formula) e tentava in ogni modo di circuirla e svuotarla, ricordando forse l’operazione di Togliatti verso l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, ma dimenticando che, come spesso succede, la seconda volta la storia si presenta normalmente in termini di farsa. E così fu.

La Lega riprese ad avanzare sia pure in modo altalenante, civilizzando quanto era necessario civilizzare al proprio interno, per non far diventare marginale  il suo discorso. Innestò la sua iniziativa nei comuni del Lombardo-Veneto, penetrando nei confini corazzati dell’Emilia rossa e immettendo nella politica italiana una traccia indelebile che intaccava un nodo dolente della storia della Repubblica. Infatti, il dualismo italiano, che aveva attraversato diverse fasi anche cariche di speranza, si presentava come nodo irrisolto, e si andava confermando nella contrastata e per molti aspetti drammatica realtà meridionale.

La Lega di Bossi ebbe come alleato organico Forza Italia che si era collocata nel vuoto politico creato da Mani pulite e raccoglieva quell’elettorato moderato rimasto senza rappresentanza. Con An, nel frattempo pienamente legittimata, Forza Italia e Lega, alla fine di un lungo percorso di progressivo avvicinamento, governarono insieme. E il cuore di quell’alleanza fu l’attacco alla questione meridionale. Attacco riuscito in pieno e che la sinistra meridionale non seppe contenere e rovesciare. Il pensiero meridionalista era fermo, consapevole della caduta di vecchie categorie di comprensione e abbastanza sulla difensiva per costruirne altre. Si erano fatti esperimenti importanti d’innovazione far loro diverse, da Meridiana al pensiero meridiano. Ma siffatti tentativi si erano rivelati incapaci di produrre cultura politica. E anche la cosiddetta rivoluzione dei sindaci, che aveva avuto come epicentro la Napoli di Bassolino ed era stata ideata per fronteggiare la sfida leghista sul terreno suo proprio – quello del federalismo – era stato un fallimento. Un fallimento storico delle classi dirigenti meridionali che veniva da stagioni lontane, da insufficienze radicate nel tessuto di quella società, da trasformazioni profonde di contesto storico. Ma quella dei sindaci era stata l’ultima esperienza che avrebbe potuto rovesciare il rotolio critico di un incancrenito dualismo, qualora si fossero utilizzati in modo intelligente i giganteschi flussi finanziari europei. E non solo non lo aveva rovesciato, anzi ne aveva confermato la tendenza.

Sicché la questione settentrionale si mangiò l’altra, quella meridionale. Insorta oggettivamente su mutamenti profondi dello scenario nazionale e mondiale, sulla crisi degli Stati nazionali, sull’internazionalizzazione dell’economia, sull’irrompere del Nord-Est come nuova chiave di lettura del sistema produttivo italiano, la questione settentrionale diventò egemonica perché legittimata dal fallimento della sinistra che non aveva saputo reinventare in termini nuovi la questione meridionale.

Le basi culturali della questione settentrionale

Come ha opportunamente ricordato Antonio Lamantea nel suo pregevole studio antropologico e critico-letterario Risorgimento, Unità, Meridione, il fenomeno leghista ha avuto una preistoria, articolata e sostenuta da solida dottrina giuridico-costituzionale, nell’opera e nelle tesi di Gianfranco Miglio. Già a partire dal 1980, lo studioso aveva teorizzato una revisione della Costituzione in chiave federalistica come unica soluzione dei problemi della società italiana. Individuando due percorsi fondamentali da seguire: il decisionismo dello Stato sovrano e il pluralismo dei corpi intermedi. E la sua critica al sistema politico della Repubblica dei partiti era fondata sulla denuncia dei guasti di un modello di sviluppo fondato sull’assistenzialismo e l’”individualismo irresponsabile”. Nei primi anni Novanta il pensiero politico di Miglio si era corroborato di idealizzazioni solidaristiche, nel culto di un’etica civile e nell’attenzione alle politiche sociali. Elementi fatti emergere con forza, nel dibattito pubblico del capoluogo lombardo, per iniziativa del Cardinal Martini, Arcivescovo di Milano, il quale, contemporaneamente, aveva costituito la Commissione “Giustizia e Pace”, con la finalità di potenziare gli aspetti solidali della società, il valore istituzionale dell’associazionismo e la fede del cittadino nello Stato. Miglio aveva introdotto nel suo modello federalistico tali elementi suscitando così un vivo interesse del mondo cattolico al suo progetto. Non va, peraltro, sottaciuto che l’orientamento federalistico in Italia si è alimentato, fin dal Risorgimento, di apporti notevoli della tradizione cattolica, come quelli di Vincenzo Gioberti e Luigi Sturzo.

Quando Bossi formalizzò il suo movimento nel 1991, aveva accanto a sé Miglio come curatore del suo programma di riforme istituzionali. Ma il sodalizio tra i due, nel giro di pochi anni, si ruppe proprio sugli aspetti solidaristici del modello federalistico. Una rottura che non incrinò più di tanto la credibilità del progetto sul piano dell’architettura istituzionale, ma ne fece emergere gli aspetti regressivi, etnolocalistici ed egoistici.

Un ulteriore apporto teorico alla questione settentrionale – alternativo a quello della Lega – è venuto verso la fine degli anni Novanta da Massimo Cacciari, quando era sindaco di Venezia, con il Manifesto del Nord-Est. L’iniziativa nasceva a seguito del fallimento della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali ed era aperta ai sindaci di tutti gli schieramenti politici. Il documento era seriamente e rigorosamente articolato e si poneva come l’antitesi di forme autarchiche e localistico-municipalistiche. Introducendo l’etica della relazione, apriva anche all’idea della solidarietà e, dunque, alla problematica meridionalistica. Con tutte le difficoltà e le astrazioni che includeva, l’elaborato di Cacciari avrebbe potuto costituire una base solida per la costruzione di un movimento nel Nord che contenesse un segno diverso da quello impresso da Bossi alla Lega, ma l’iniziativa rimase essenzialmente sulla carta e non decollò.

Il voto degli operai del Nord alla Lega

E così, alle elezioni del 2008, ci fu l’amara sorpresa di vedere una parte cospicua del voto operaio spostarsi verso la Lega. Quando la rottura di un sistema egemonico, sorretto da una visione della storia nazionale, si traduce in sensibilità critica di massa, allora scatta uno spostamento nell’opinione generale e una nuova visione della storia nazionale diventa sensibilità comune. Se un operaio del Nord può votare Cgil e Lega, vuol dire che qualcosa si è spezzato nelle connessioni e nei gangli che tenevano insieme un sistema. Veniva fuori in modo plateale quello che molti avevano intuito qualche tempo prima: il sindacato era diventato una corporazione tra le corporazioni e tendeva a conservare lo status quo. Un conservatorismo sordo che si era manifestato alla fine degli anni Novanta nello scontro tra Cofferati e D’Alema, quando quest’ultimo, da premier, aveva tentato di introdurre qualche novità riformista nel quadro statico dei rapporti industriali italiani.

Poi ci furono gli scandali di Umberto Bossi – la truffa dei rimborsi elettorali, gli investimenti africani in diamanti, le lauree comprate in Albania per Renzo e altri membri della “family” – e il generoso ma vano tentativo del successore, Roberto Maroni, di farli dimenticare. Alle elezioni politiche del 2013 la Lega scese infatti al 4%. E questo dato sta a dimostrare l’esistenza di elementi di dinamismo da non sottovalutare mai: la forte mobilità del voto in Italia e la reversibilità – anche repentina – dei processi politici che si producono nel Paese.

La Lega di Salvini

Con Matteo Salvini c’è stata la rimonta fino a conseguire il 18% dei voti nell’ultima tornata elettorale. Il nuovo leader leghista ha stravolto l’ideologia padana, rinnegando tante cose sostenute in passato (a partire dai “napoletani colerosi e terremotati”). Ha trasformato il partito da forza locale a nazionale, affidandosi a uomini selezionati mediante l’applicazione di tre rigide regole: godere di uno spiccato “carisma” clientelare, possedere uno spirito politico camaleontico, essere il referente di un blocco elettorale tramandato di padre in figlio, a prescindere dalla sigla del partito. In tal modo si è potuto garantire una quota consistente di voti anche al Sud. Salvini ha preso quasi il 15% in Abruzzo, il 10% in Molise e Sardegna, il 6% in Puglia e Basilicata, il 5% in Campania, Calabria e Sicilia. Per capire la portata del cambiamento è sufficiente ricordare che in nessuna di queste regioni cinque anni fa la Lega aveva superato l’1%.

Sul piano internazionale, la Lega di Salvini ha cavalcato l’onda anti-europeista che sta scuotendo le fondamenta dell’Ue, collegandosi a Marine Le Pen e a Victor Orban. Ha cominciato a strizzare l’occhio alla Russia di Vladimir Putin, pur dichiarando di non voler scalfire l’alleanza storica dell’Italia con gli Stati Uniti.

Come ha rilevato Dario Di Vico sul Corriere della sera, Salvini al Nord non ha rastrellato voti solo tra coloro che si considerano i perdenti della globalizzazione — la versione padana dei forgotten men — ma anche tra i vincenti dell’apertura dei mercati: le imprese che, nel nuovo triangolo della ripresa 2018 tra Varese, Bologna e Treviso, hanno cambiato struttura e mentalità rispetto al periodo pre-crisi e sono diventate più stabili e longeve internazionalizzandosi e mettendosi così al sicuro dal dipendere esclusivamente dal mercato interno. Votando Lega questo mondo ha voluto esprimere due esigenze che non sono alternative ma complementari: da una parte, aprire i mercati con idonee ed efficaci istituzioni e regole sovranazionali, e, dall’altra, salvaguardare e riorganizzare la sovranità nazionale per esaltare le peculiarità territoriali dei nostri distretti.

Come si può vedere, Salvini ha stravolto il Carroccio dall’interno, rimanendo tuttavia fedele a un solo principio bossiano: la politica anti-immigrati, ancora oggi caposaldo dell’ideologia leghista. A Macerata, dove lo scorso 10 febbraio è stata organizzata una manifestazione antifascista in seguito all’attentato fatto da Luca Traini, che il 3 febbraio aveva sparato dalla sua auto a diverse persone africane, la coalizione di centrodestra ha preso più voti (37,9%). E all’interno di essa, la Lega ha distaccato Forza Italia con più di undici punti, risultando il partito più votato (oltre il 21%). Un successo ancor più significativo dopoché i sondaggi l’avevano piazzata allo zero virgola.

Questa volta, Salvini non ha avuto più bisogno di mostrare il volto arcigno dell’anti-Sud perché del Sud la Lega e i suoi alleati avevano già fatto il loro pasto prelibato quando erano riusciti a sostituire la visione della storia nazionale che veniva dalla tradizione meridionalista con un’altra visione dell’Italia, imperniata sulla questione settentrionale. E con tale nuova visione essi hanno potuto completare la grande operazione politica avviata da Bossi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Il messaggio che Salvini ha indirizzato ai settentrionali si è fondato non solo sulla paura della globalizzazione e dei flussi migratori, ma anche sul mostrare una nuova Lega capace di estendere tali timori a  tutto il territorio nazionale, alimentando ovunque rigurgiti autarchici, nostalgie passatiste, regressioni protezionistiche, etnolocalismi chiusi, reinvenzioni rozze di miti arcaici che si ritenevano sepolti.  Naturalmente, tale esito è stato conseguito utilizzando a piene mani un intero sistema mediatico che si è reso disponibile a sostenere tale operazione.

La memoria delle vittime meridionali dell’Unità d’Italia

Pino Aprile, autore di due libri di successo (Terroni e Carnefici), all’indomani del 4 marzo ha dichiarato che ”il voto al M5s ha un confine geografico, compatto ed omogeneo, è esattamente quello dell’ex Regno delle due Sicilie”. Segnerebbe, secondo lui, la ribellione del Sud saccheggiato, depredato, spolpato: “avremmo votato pure Belzebù – continua il giornalista – pur di liberarci di questi politici di oggi”. A questa lettura ha prontamente aderito anche Roberto Saviano precisando: “Il voto ai 5 Stelle e alla Lega non è un voto esclusivamente di ribellione, ma è un voto ormai ragionato. Questa volta l’elettorato è stato coeso nel dare consenso a due partiti che sono specchio fedele dei loro elettori. Il voto non è stato semplicemente un voto di protesta o di opinione, ma un voto di identità”.

È davvero così? Il trionfo dei 5 Stelle e l’affermazione significativa della Lega al Sud richiamano l’arcaico ribellismo meridionale? Gli elettori del Mezzogiorno si identificano davvero con Di Maio e Salvini, i quali si sono fatti paladini dell’idea egoista che ognuno in “casa propria” fa quel che vuole, sottraendosi ai vincoli derivanti dalle interdipendenze globali?

Ci può aiutare a dare una risposta a queste domande una vicenda sconcertante che è durata quasi tutto il 2017. Nei Consigli delle Regioni Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise e Puglia sono stati presentati dai 5 Stelle ordini del giorno o mozioni con cui veniva invocata l’istituzione di una “giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia”. Con tali iniziative veniva richiesto di elevare a dignità di commemorazione pubblica la ricorrenza della resa di Gaeta del 13 febbraio 1861, quale fine dell’indipendenza meridionale. Il 7 marzo è stato il Consiglio regionale della Basilicata ad approvare per primo, a larga maggioranza, l’ordine del giorno. Il 4 luglio è la volta del Consiglio regionale della Puglia che approva una mozione di analogo contenuto. La consigliera che illustra il testo dichiara che, nell’assumere l’iniziativa, i 5 Stelle si sono ispirati alle ultime due pubblicazioni di Pino Aprile. Al momento della votazione è in aula anche il presidente della Giunta, Michele Emiliano, esponente del Pd, che fa una dichiarazione scioccante: “Il governo non ha nulla in contrario. Com’è noto, Pino Aprile è uno dei consiglieri del presidente. Abbiamo tutta l’attrezzatura pronta per organizzare al meglio una giornata come questa. Il mio parere è favorevole”. C’è da rilevare che un analogo testo, in forma di mozione, era stato presentato il 28 febbraio alla Camera dei deputati per iniziativa di parlamentari meridionali di Forza Italia e Pd. Ma il 30 luglio, la Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco) prende una posizione fortemente critica nei confronti della delibera assunta dal Consiglio regionale della Puglia. “Se si desse seguito alla mozione – è scritto nella nota della Società – in Puglia il 13 febbraio comparirebbe nel calendario delle celebrazioni civili al pari del 25 aprile e del 2 giugno e nulla impedirebbe di contrapporre giornate del ricordo delle vittime sanfediste o delle repressioni borboniche”. La Sissco “chiede pertanto che la mozione sia abbandonata e che la Regione Puglia coinvolga attivamente la Società, gli atenei e gli enti di ricerca di riferimento, per un confronto aperto e metodologicamente fondato sui temi della storia nazionale e su ogni iniziativa istituzionale o pubblica che vi si riferisca”. Alla presa di posizione della Sissco aderiscono il Coordinamento delle Società storiche, la Società napoletana di storia patria e l’Istituto Gramsci siciliano. A questo punto incominciano i ripensamenti. E alcuni esponenti del Pd assumono iniziative in Parlamento e nei Consigli regionali per prendere le distanze dalla proposta dei 5 Stelle e sostenere invece la richiesta delle Società storiche di essere coinvolte in iniziative di confronto sui temi della storia nazionale.

La confusa e farsesca vicenda mette in luce che i 5 Stelle si erano fatti portavoce di un’istanza proveniente da propagandisti neoborbonici e neosudisti che avevano goduto, nel condurre le loro iniziative editoriali, del silenzio degli storici di professione. Ma con l’iniziativa assunta dai grillini e avallata apertamente da esponenti del Pd e di Forza Italia, i professori universitari a questo punto si sono finalmente allarmati. Il primo è stato Francesco Barbagallo che scrive su Repubblica: “In un tempo e in una politica dominata dalle fake-news, i falsi vanno denunciati e contrastati, perché rischiano di diventare la piattaforma politico-culturale di movimenti che aspirano al governo del paese anche loro, dopo le infauste esperienze di altri imbonitori e pifferai di vari colori”. Giovanni De Luna denuncia su La Stampa l’enorme quantità di “leggi di memoria” varate dal 2000 in poi: “Sono leggi che, in realtà, dimostrano soprattutto la fragilità di questa classe politica. La centralità delle vittime posta come fondamento di una memoria comune alla fine divide più di quanto unisca. Ogni vittima rivendica per i propri lutti e le proprie sofferenze attenzioni e risarcimenti. Ognuno cerca di gridare il proprio dolore urlando più forte la propria sete di giustizia. E a queste grida corrisponde una babele di linguaggi emotivi che – legittimi nella sfera privata – trasportati nella sfera pubblica alimentano separatezze e conflitti. In realtà, la ‘repubblica del dolore’ che affiora dall’intricata selva delle leggi memoriali sembra incapace di proporre una religione civile condivisa, un patto di cittadinanza fondato su una memoria comune”.  Anche Aurelio Musi interviene su Repubblica: “Neoborbonismo e populismo vanno a braccetto nell’uso pubblico dell’antistoria: e stanno diventando ingredienti non opposti ma complementari di nuove modalità di ricerca del consenso, a cui non è certo estraneo il sindaco De Magistris. Bisogna ragionare attentamente su questo vero e proprio salto di qualità che sta investendo la rappresentanza dei territori e le istituzioni locali nel Mezzogiorno, col rischio di una nuova, profonda frattura. E, francamente, di tutto ha bisogno il nostro paese tranne che di questo”. E infine Guido Pescosolido sul Foglio ricorda che “la polemica antirisorgimentale della storiografia neoborbonica non è né di questa estate né di quella passata. Le sue prime manifestazioni si ebbero sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, molto provocate e alimentate dall’irruente e rozza ondata antimeridionale leghista. Sinora tutti i dibattiti neoborbonici erano rimasti grosso modo sempre abbastanza trasversali nei loro riferimenti politici e partitici. Ora invece, con la sua iniziativa, i 5 Stelle si propongono al movimento neoborbonico come l’unica forza politica che, per di più da posizioni minoritarie, è in grado di ottenere qualcosa di concreto sul piano istituzionale e per di più di altamente significativo sul piano della simbologia storica”.

Queste le posizioni molto nette degli storici di professione. Ma se si vanno a leggere i numerosi interventi di giornalisti e operatori culturali apparsi l’anno scorso sui quotidiani intorno a questa vicenda, si può verificare quanto ampia fosse l’opinione pubblica che si è mostrata indifferente alle preoccupazioni del mondo accademico ed emotivamente vicina ai 5 Stelle. E la cosa sconcertante non è stata tanto questa, quanto invece l’afasia, l’imbarazzo degli esponenti politici non grillini, incapaci di spiegare il loro comportamento altalenante nella vicenda.

Il voto ai 5 Stelle al Sud non ha il significato di un arretramento antropologico a pulsioni ribellistiche e sanfediste, di una “voglia di opposizione”, come ha ben rilevato Umberto Minopoli nel respingere sul Foglio le letture del voto fornite da Aprile e Saviano. Il voto meridionale (omogeneo dappertutto, in ogni strato sociale e articolazione) ha colto, in modo intelligente e pacato, l’esaurirsi definitivo di un intero ciclo politico e, con esso, di un ceto dirigente ormai del tutto privo di una visione dell’Italia e, in essa, del Mezzogiorno. Ha intuito l’imminenza di un ricambio e lo ha supportato. Se opinionisti, operatori culturali, analisti politici ed economici hanno accolto con favore e compiacenza la nuova visione dell’Italia inaugurata da Bossi e portata a compimento, con tutti gli adeguamenti necessari, da Salvini, il Sud si è adeguato.

Ma il voto meridionale ci dice anche che l’intensificarsi della mobilità elettorale riguarda ormai tutti i territori italiani. E dunque siamo in presenza di un voto potenzialmente reversibile anche in tempi brevi, se il Pd saprà comprendere la ragione di fondo della sconfitta e sarà capace di elaborare un’autonoma visione dell’Italia e del Mezzogiorno in un’autonoma visione dell’Europa e del mondo. Guai a gettare a mare l’impianto riformista dei governi Renzi e Gentiloni! Sarebbe un errore imperdonabile! Si tratta di svilupparlo e dargli un’anima, connettendo, in un’idea di giustizia, merito e bisogni, società aperta e comunità inclusive. Un lavoro enorme da portare avanti mettendo in moto risorse culturali e politiche che si erano distaccate e formando una nuova leva di dirigenti.

Favorire lo sviluppo di un pensiero laico  

In conclusione vorrei chiarire un aspetto che ritengo fondamentale nella costruzione di una visione dell’Italia e della sua storia che rimetta al centro, in termini aggiornati, la questione del Mezzogiorno. Che sulle vicende storiche che hanno riguardato il Risorgimento e i decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia ci sia bisogno di approfondimenti e di letture antiretoriche e senza paraocchi, è un’esigenza non solo reale, ma anche irrinunciabile. Mancano ancora ricerche più capillari e rigorose su capitoli fondamentali della storia di quel passaggio cruciale della nostra vita nazionale: questione demaniale, brigantaggio, emigrazione, origine dello statalismo, nascita delle organizzazioni politiche e sociali, origine delle mafie, sviluppo del pensiero sociale, formazione di un ceto tecnico-politico meridionale. C’è un’immensa letteratura sul Mezzogiorno che ha indagato il divario Nord-Sud dal punto di vista economico, sociale, antropologico e politico. Essa va valorizzata, divulgata e digerita con senso critico. Ma quella che è stata la principale manifestazione d’incompiutezza dell’Italia unita merita ancora di essere studiata a fondo e dibattuta nella dimensione europea per diventare coscienza condivisa del cittadino che vive nel nostro Paese. Ci sono infatti da indagare non solo problemi risalenti ai primi lustri dello Stato unitario, ma anche quelli del secondo dopoguerra: riforma agraria; prima fase dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno; ricadute nefaste non solo sociali ed economiche, ma anche culturali e politiche, della scelta riguardante l’industrializzazione forzata dall’alto; mancato decollo del Sud negli anni Settanta e nel periodo successivo al terremoto della Basilicata e dell’Irpinia. Tuttavia, va detto con forza che tale processo culturale va condotto con criteri scientifici e partecipativi e non può assolutamente avvenire nel fuoco delle strumentalizzazioni politiche, anche se la politica – come abbiamo visto – ne ha bisogno come il pane.

La storia della questione meridionale ci parla di un pensiero militante e di interpretazioni confliggenti che coincidevano con le diverse ispirazioni ideologiche dell’Ottocento e del Novecento. I partiti erano anche grandi costruttori di pensiero. Senza il quale ogni azione politica è destinata al fallimento. E il successo dei 5 Stelle e della Lega si è fondato sull’evoluzione di un pensiero, rozzo e retrogrado quanto si vuole, ma comunque capace di parlare alle emozioni delle persone.

Tommaso Nannicini, estensore del programma elettorale del Pd, ha riconosciuto che all’azione di governo degli ultimi anni è mancata una costituzione emotiva. Egli ha attinto l’espressione dalla psicologia politica dandole questo contenuto: “Insieme di valori, principi e macro obiettivi che – da una parte – plasmano l’identità di un partito e – dall’altra – servono da interpretatori di senso per capire le politiche che quel partito sta portando avanti”.

Ridefinire oggi un pensiero politico democratico significa anche dotarsi di una costituzione emotiva. Da definire con modalità diverse da quelle adottate quando c’erano le grandi costruzioni ideologiche. Avremmo bisogno di un pensiero non militante, non civilmente disimpegnato, ma nemmeno spinto a sentirsi corresponsabile di un destino dell’umanità. Avremmo necessità di un pensiero essenzialmente libero, laico, capace di confronto, di ascolto, di comprensione e rispetto reciproco, da favorire nelle forme più varie. Quello che bisognerebbe superare sono le visioni organiche, fondamentaliste, le idee integrali della storia italiana, le strategie ferree ed egemoniche. Mentre occorrerebbe puntare sulla valorizzazione del pluralismo e delle differenze e, in tale quadro, ridefinire concetti e problemi della cittadinanza, della governance dell’Ue, della riorganizzazione dello stato nazionale e della sua governabilità, della democrazia rappresentativa, dello sviluppo, del rapporto uomo e ambiente, della sussidiarietà, prendendo il meglio della tradizione culturale e reinventandola.  Solo in questo modo le riforme che un governo di orientamento democratico realizza potranno collocarsi in una dimensione di senso, in una visione capace di parlare all’intelligenza delle emozioni dei cittadini.

di Alfonso Pascale

Roma 4 aprile 2018