En los márgenes segna l’esordio alla regia cinematografica per l’attore ispano-argentino Juan Diego Botto, che si lancia con sincerità (ma anche qualche dose di “furbizia”) nel racconto degli sfratti in Spagna. Un lavoro sociale che si produce in impegno ma anche in un cinema medio, adagiato sulla classe di Penélope Cruz. In concorso a Orizzonti a Venezia.
Un giorno a Madrid
A Madrid, nell’arco di 24 ore, Azucena tenta di evitare uno sfratto esecutivo, una giovane madre immigrata rischia di vedersi sottrarre la propria bambina dai servizi sociali, un’anziana signora disperata vorrebbe parlare urgentemente col figlio e un avvocato, anche a costo di trascurare la moglie incinta, cerca di aiutare gli altri… [sinossi]
Tutto in 24 ore, da quando la sveglia di Azucena (Penelope Cruz) suona, poco prima delle 7.30, fino alla mattina successiva quando la polizia arriverà a sfrattarla, buttandola con ogni probabilità per strada con il figlio di 7 anni. Altre tre storie si incontrano e incrociano nell’arco di tempo che il regista Juan Diego Botto (attore argentino naturalizzato spagnolo, qui al suo esordio nel lungometraggio e anche interprete in una parte importante ma non centrale) usa come “escamotage” per scattare una serrata istantanea madrilena sui margini e i marginali, come suggerisce il titolo del film, uniti da un pericolo incombente, quello degli sfratti causati dalla perdita dell’occupazione, dalla speculazione sui mutui, dai dissesti bancari. In Spagna, ci informerà una scritta alla fine, ci sono infatti più di 100 sfratti esecutivi al giorno: un problema sociale enorme che dilania famiglie, spezza esistenze, umilia le persone. L’escamotage delle 24 ore funziona anche a non chiudere definitivamente le storie essendo, la giornata narrata da Botto, una tra le tante, una delle tante, con personaggi che potrebbero essere questi come altri, in situazioni che si ripetono quotidianamente, mentre il mondo va malamente avanti. O a rotoli.
En los márgenes, presentato in Concorso nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia, è animato da buone intenzioni sociali, vuole essere un film di denuncia e nel suo ritmo concitato sembra guardare in più di una scena al cinema di Sorogoyen (la cui bella serie tv Antidisturbios cominciava proprio con uno sfratto). Buone intenzioni che hanno spinto una diva come Penélope Cruz a essere tra i produttori del film, oltre che una delle intepreti, perché il “cinema impegnato” nobilita chi lo fa. Il risultato è un lavoro scorrevole benché diseguale, poiché i personaggi non sono tutti ritratti con ugual perizia e soprattutto sensibilità, ma non si può dire che En los márgenes non abbia momenti ben risolti e persino emozionanti. Sono quattro, appunto, le vicende che si svolgono in una giornata della capitale spagnola: c’è quella di Azucena, cassiera in crisi con il marito, che non riesce a pagare il mutuo e sta per essere sfrattata; la donna non si dà per vinta, ma per tutto il giorno va e viene tra il lavoro sottopagato, la banca cui deve i soldi e l’associazione contro gli sfratti che cerca di dare supporto ed essere presente ogni giorno là dove un’irruzione della forza pubblica viene perpetrata. C’è poi una madre anziana e vedova, che cerca disperatamente di telefonare a suo figlio il quale, a causa di un affare andato male, ha perso tutti i risparmi della famiglia e non risponde mai alla genitrice devastato dal senso di colpa. C’è una scena, nell’incipit del film, tesa e drammatica, in cui una bambina viene lasciata sola in casa dalla madre, una giovane donna immigrata, che va a “lavorare”: la bambina, abituata a fare da sé, si prepara una tazza di latte e sta tagliando un pezzo di pane quando fa irruzione la polizia, cercando la madre assente, mentre la piccola si fa male con un coltello. La scena, davvero notevole, resta però l’unica incisiva traccia di una trama destinata a disperdersi più delle altre (quella del ricongiungimento tra la mamma immigrata e la figlia), diventando soprattutto l’azione su cui si innesta la vicenda principale del film, quella che racconta di Rafael (Luis Tosar), avvocato “delle cause perse” come si usa dire, uno che sta dedicando la sua vita ad aiutare clienti in difficoltà e senza chiedere certo lauti compensi, uno che “vuole salvare il mondo” come gli dice la mattina sua moglie Helena, professionista incinta che non pare molto contenta di come il marito (non) stia seguendo la sua maternità. Quella sera Helena ha l’amniocentesi e si aspetta che, almeno, Rafael sia con lei per l’esame, mentre la mattina l’uomo deve accompagnare il figliastro adolescente, figlio di primo letto di sua moglie, a prendere un pullman per la gita scolastica.
L’andirivieni per Madrid di Rafael, destinato a prendere multe ma anche a stringere un rapporto più stretto con il figliastro, è in verità il centro attorno cui si muove En los márgenes, lavoro che riesce a saltare da scene buone ed emozionanti ad altre assai più svogliate, di prammatica e quasi “doverose” come la lite tra Cruz e il marito (interpretato da Botto) che pare la scena madre necessaria, prevista da contratto, per far vedere al pubblico quanto la brava Penélope sia, anche qui, brava anche con un brutto taglio di capelli e capace di calarsi nuovamente nella parte di una donna sfortunata ma che lotta. Il personaggio di Azucena, con quel figlio portato a scuola e andato a riprendere, con il suo camminare triste e la sua drammaticità esibitissima, è quello più debole in un film discontinuo che unisce intuizioni registiche e di senso a momenti in cui tutto sembra già scritto, in cui la prevalenza del messaggio o di come “si devono” mettere in scena i poveri scalza qualche buon momento di cinema. “Non ho tempo”, “non è un mio problema”, “non fa parte del mio lavoro” sono frasi ricorrenti, pronunciate da personaggi differenti cui Rafael chiede una mano per evitare sfratti o far ricongiungere la bambina, “data” dalla polizia ai servizi sociali, con la madre che in effetti la lascia sola tutto il giorno: sono i momenti più ambigui, ovviamente, a essere i più interessanti. L’ambiguità di una madre che di fatto lascia sola la figlia piccola in casa, quella di Rafael che è un borghese che si sente un po’ un eroe o quella delle persone “normali” che lavorano facendo quello che devono in un mondo procedurale dove ognuno ha ragione a eseguire il pezzettino di compito che la società gli ha affidato anche quando ha immensamente torto perché senza visione sistemica un “piccolo compito” non serve a niente. Se la tv ricorda qua e là le decine di miliardi spesi dal governo spagnolo per salvare le banche, i singoli sono stritolati dagli iter, dalle regole stringenti, e per loro difficilmente arriva “il salvataggio”. Le prime vittime di questa ingiustizia sono i rapporti famigliari. Il messaggio, insomma, è molto chiaro. Forse talmente tanto da non rendere En los márgenes un film stratificato né, paradossalmente, davvero drammatico nella sua reiterazione. Commovente proprio perché irrisolta fino alla fine, ben gestita dal regista onnisciente, è la triste storia della madre che cerca di contattare il figlio: non sappiamo cosa deve dirgli con tanta urgenza perché Botto racconta molto più il controcampo dell’uomo, che si sente un fallito assoluto avendo perduto tutti i soldi di famiglia cercando di aprire un’attività, andata male. Il film funziona – la cosa non sorprende – là dove l’esplicito e l’esibito lascia spazio alla sfumatura, al non detto: anche questa traccia implode quando le carte saranno messe del tutto sul tavolo.
Le scene e le scelte interessanti, che non mancano, sembrano affogate in un film che tutto sommato non vuole urtare troppo la sensibilità del pubblico, scegliendo per lo più una messa in scena già ammansita, tipica del “cinema giusto”. Un’impressione che si consolida nel finale quando la violenza viene solo accennata e la regia non rigira il coltello nella piaga, distogliendo – anzi fermando – lo sguardo sul volto urlante di Penélope Cruz. Un lavoro senza infamia ma che perde, con scelte troppo facili, le potenzialità che contiene.
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