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Le Isole Cayman si mangiano l’Amazzonia: i paradisi fiscali sono un inferno per l’ambiente

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Un nuovo studio rivela connessioni tra paradisi fiscali e degrado delle risorse, sia per le foreste pluviali che per la pesca globale.

La pubblicazione dei “Paradise Papers” e dei  “Panama Papers” ha chiarito una volta per tutte che i paradisi fiscali possono causare una serie di impatti politici, economici e sociali negativi. Ora un team di ricercatori dello Stockholm Resilience Centre (Src) della Stockholms universitet e del Global economic dynamics e biosphere (Gedb) dell’Accademia reale svedese delle scienze e dell’Università di Amsterdam, ha pubblicato su Nature Ecology and Evolution lo studio “Tax havens and global environmental degradation”, il primo che dimostra come i paradisi fiscali sostengano attività economiche che causano gravi impatti ambientali globali.

Infatti, lo studio dei ricercatori svedesi rivela che il 70% delle navi coinvolte nella pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (Iuu – illegal, unreported and unregulated) sono, o sono state, sotto bandiera e/o giurisdizione di un paradiso fiscale. Inoltre, in media, il  68% di tutti i capitali stranieri indagati per aver finanziato settori associati alla deforestazione della foresta pluviale amazzonica tra gli anni 2000-2011 è stato trasferito attraverso paradisi fiscali.

Il nuovo studio fa parte del progetto di ricerca “Earth System Finance: New perspectives on financial markets and sustainability“, in corso di realizzazione da parte del Gedb e del Src in collaborazione con Future Earth e Il principale autore, Victor Galaz del Src e del Gedb, spiega che «la nostra analisi mostra che l’utilizzo dei paradisi fiscali non è solo una sfida socio-politica ed economica, ma anche ambientale, ma il segreto finanziario ostacola la capacità di analizzare come i flussi finanziari influenzano le attività economiche e il loro impatto ambientale sul territorio».

Il team di autori, che comprende anche Beatrice Crona, Alice Dauriach, Jean-Baptiste Jouffray e Henrik Österblom (Src e Gedb) e Jan Fichtner (università di Amsterdam), evidenzia che «la maggior parte delle precedenti analisi degli impatti ambientali dei paradisi fiscali sono state condotte da giornalisti investigativi che si sono concentrati su alcune località. Gli esempi includono i collegamenti tra la distruzione della foresta pluviale in Indonesia e le compagnie dell’olio di palma che operano attraverso le Isole Vergini britanniche e le società di comodo implicate nell’estrazione distruttiva di diamanti nell’Africa occidentale». Invece il  nuovo studio, «adotta un approccio più sistematico per analizzare come i paradisi fiscali influenzano la sostenibilità dell’oceano e la foresta pluviale amazzonica come due esempi chiave di beni ambientali globali».
La Crona, direttrice esecutiva del Gedb, aggiunge: «L’assenza di una visione più sistemica non è sorprendente se si considera la mancanza cronica di dati derivanti dall’opacità finanziaria creata dall’utilizzo di queste giurisdizioni. Questa mancanza di trasparenza nasconde il modo in cui i paradisi fiscali possono svolgere un ruolo chiave nel facilitare il degrado dei beni ambientali che sono essenziali per le persone e il pianeta a livello globale. La foresta pluviale amazzonica, ad esempio, è fondamentale per stabilizzare il sistema climatico terrestre, mentre l’oceano fornisce una fonte vitale di proteine e reddito per molti milioni di persone in tutto il mondo, in particolare nei Paesi a basso reddito e in  deficit alimentare».

Lo studio comprende la prima quantificazione del capitale straniero che confluisce nelle industrie  della produzione di carne di manzo e di soia che operano nell’Amazzonia brasiliana, due settori legati alla deforestazione, e i ricercatori scrivono: «La nostra analisi dimostra che tra ottobre 2000 e agosto 2011 un totale di 26,9 miliardi di dollari di capitale straniero è stato trasferito in queste industrie. Di questo capitale, circa 18,4 miliardi di dollari sono stati trasferiti dalle giurisdizioni dei paradisi fiscali»

Le Isole Cayman si sono rivelate la giurisdizione più utilizzata per il  trasferimento per capitale straniero alle principali compagnie operanti nell’Amazzonia brasiliana. Il noto paradiso fiscale caraibico britannico offre tre vantaggi agli investitori: efficienza giuridica, minimizzazione fiscale e segretezza.

Utilizzando i dati della Banca Centrale del Brasile, Galaz e colleghi hanno dimostrato che «circa il 70% del capitale estero che affluisce verso le più grandi aziende delle industrie brasiliane di soia e carne bovina viene canalizzato attraverso i paradisi fiscali».

Il nuovo studio comprende  anche un’analisi sistematica del ruolo dei paradisi fiscali nelle attività di pesca Iuu in tutto il mondo e ne emerge che «il 70% delle navi individuate che effettuano o sostengono la pesca Iuu e per le quali sono disponibili informazioni sulla bandiera sono o sono state registrate in una giurisdizione di un paradiso fiscale, in particolare Belize e Panama».

Molti dei paradisi fiscali sono anche i cosiddetti stati delle bandiere di comodo (Flags of convenience – Foc), Paesi con limitate capacità di monitoraggio e di governance che non penalizzano le navi che operano sotto la loro bandiera, anche se sono vengono identificate mentre operano in violazione del diritto internazionale. I ricercatori evidenziano che «l’esempio più eclatante di come questo mina la legislazione e la governance della pesca internazionale è che la segretezza offerta da un  paradiso fiscale, combinata alle Foc, consente alle compagnie di far navigare pescherecci con doppia identità, una delle quali viene utilizzata per scopi legali e l’altra per attività di pesca illegali».

Österblom conferma: «La natura globale delle catene del valore della pesca, le strutture di proprietà complesse e le limitate capacità di governance di molte nazioni costiere rendono il settore vulnerabile all’utilizzo dei paradisi fiscali».

In conclusione, il nuovo studio mostra che «è giunto il momento di mettere i paradisi fiscali nell’agenda della sostenibilità globale.  La mancanza di nessi causali chiaramente stabiliti tra paradisi fiscali e cambiamenti ambientali globali non dovrebbe dissuadere da ulteriori indagini» e gli autori concludono suggerendo tre questioni che dovrebbero essere centrali nelle future attività di ricerca e nella governance dei paradisi fiscali: «1) La perdita di gettito fiscale causata dai paradisi fiscali dovrebbe essere considerata come sussidio indiretto alle attività economiche, a volte con impatti negativi sui beni comuni globali; 2) I principali forum e organizzazioni internazionali, come l’Onu, dovrebbero valutare i costi ambientali di tali sussidi; 3) La comunità internazionale dovrebbe considerare l’evasione fiscale come un problema non solo socio-politico, ma anche ambientale».

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