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«La casa non è un problema di nazionalità, ma di politiche sbagliate»

«La casa non è un problema di nazionalità, ma di politiche sbagliate»: Stranieri e diritti, così l’Università legge i fatti di Roma

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Nadia Matarazzo, docente di Geografia Economica presso l’Unibas e componente di un team di ricerca della “Federico II” di Napoli, impegnato in uno studio sul disagio abitativo delle comunità migranti delle periferie campane, ci aiuta a fare chiarezza nel caos prodottosi dopo gli scontri di Piazza Indipendenza. «Dai primi Duemila, le politiche abitative del nostro Paese sono andate spegnendosi, complici alcune scelte sbagliate del legislatore. Noi oggi tolleriamo gli abusi, a condizione che siano gli italiani a commetterli. Ma senza pianificazione il problema non si risolve»

«In Italia la politica della casa, nata nel secondo dopoguerra su impulso della ricostruzione post-bellica, è andata progressivamente spegnendosi fino a morire del tutto nei primi anni Duemila. È questa una riflessione più ampia che andrebbe sviluppata a partire dai fatti di Roma». A parlare è Nadia Matarazzo, docente di Geografia Economica presso l’Università degli Studi della Basilicata, attualmente impegnata, insieme ad un più ampio team di geografi dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, in una ricerca sul disagio abitativo delle comunità migranti, nelle tre province campane dove più forte è, ad oggi, la presenza di lavoratori stranieri. Villaricca per Napoli, Mondragone per Caserta ed Eboli per Salerno sono i tre casi scelti per la loro rappresentatività di una condizione che accomuna molte delle periferie campane dove elevata è la concentrazione di stranieri ed alto il rischio di crisi abitative. Rischio che la “AliseiCoop”, società cooperativa attiva nel campo dell’edilizia popolare autocostruita e committente dello studio, intende indagare – ed eventualmente prevenire – a partire dai risultati di una ricerca che, alla luce dei fatti di Piazza Indipendenza, offre non pochi spunti di riflessione, di ampio respiro.

Professoressa, qual è il bilancio che ha potuto trarre dal suo campo di lavoro, Eboli?

«L’obiettivo della ricerca era verificare l’esistenza di margini di previsione di possibili emergenze abitative. Una premessa, poi, verificata: Eboli, che assomma in sé le caratteristiche di molte periferie della campane, si candida ad essere, a tutti gli effetti, una nuova Rosarno o una nuova Castelvolturno in ragione del dato più significativo rilevato nel periodo di ricerca sul campo»

Ovvero?

«Il 95% degli stranieri da me intervistati lavora come bracciante agricolo, con tutto ciò che questo comporta in termini di dinamiche socio-economiche, a partire dal fenomeno del caporalato, avvicinando moltissimo la realtà di Eboli a quella dei due centri maggiormente – e più tristemente – noti proprio per i fenomeni connessi a questo tipo di attività. Altro dato estremamente significativo, e che riguarda il caso specifico del centro salernitano, è che Eboli si trova lungo la litoranea, su una rotta particolarmente battuta, nel periodo estivo, dai turisti. Ed è a questi che vengono affittate molte delle case che, dalla fine di settembre sono, invece, occupate dai lavoratori stagionali. Il paesaggio, in quella parte di territorio, muta totalmente a partire dagli ultimi giorni dell’estate e per tutto l’inverno. Le abitazioni occupate da 4-6 villeggianti nel periodo vacanziero, sono cedute ai braccianti stranieri, che pagano fino a 200€ ciascuno per una sistemazione di norma totalmente sprovvista, com’è facile immaginare, di riscaldamenti. Questo nella migliore delle ipotesi»

E nella peggiore?

«Chi non può permetterselo si accontenta di ripari di fortuna: da fabbriche dismesse ad edifici abbandonati, talora sprovvisti di tetto. Stiamo parlando di una vera e propria dimensione parallela, tenuta rigorosamente lontana dal centro e dalla parte benestante della comunità, come del resto accade – seppur con modalità e per ragioni diverse – anche sul nostro territorio: l’Irpinia. Una dimensione nella quale prolifica un sottobosco criminale che va dalla prostituzione allo spaccio, per arrivare ad altre attività gestite dalle organizzazioni più ampie. Questa dimensione di separatezza, ovviamente, riduce le cause di conflittualità sociale, ma non le annulla»

Potrebbe, questa conflittualità latente, esplodere?

«Certo, nella misura in cui le due sfere arrivassero a toccarsi in ragione, ad esempio, di dinamiche di piccola mobilità sociale. Mi spiego con un esempio: se un ebolitano dovesse perdere l’impiego, tanto più se particolarmente qualificato, e dovesse subentrargli uno di questi lavoratori, dotato delle competenze di studi necessarie, si creerebbe un contatto potenzialmente carico di tensione».

A partire dalle sue osservazioni sul campo, qual è la sua analisi in merito a quanto accaduto a Roma?

«Guardi, gli sgomberi di Piazza Indipendenza richiamano in causa le premesse stesse della nostra ricerca, che in parte riguardano l’evoluzione generale delle politiche abitative nel nostro Paese. Dopo la stagione iniziata nel secondo dopoguerra, sotto la spinta della ricostruzione e della necessità di stimolare la ripresa economica, e sviluppatasi fino agli anni ‘70-’80, la politica della casa, in Italia, è andata via via spegnendosi, fino a morire del tutto nei primi anni Duemila. Una parabola discente che trova genesi nelle stesse disposizioni di legge vigenti. Quando, infatti, il legislatore nazionale ha demandato la competenza in una materia tanto delicata alle Regioni e, ancor più, ai Comuni ha creato le condizioni per un fallimento foriero di conflitti potenziali. Stiamo parlando, infatti, di Enti in condizioni economico-finanziarie disastrose, soprattutto nel Mezzogiorno, e dunque privi della forza necessaria a sostenere interventi adeguati a rispondere ai bisogni abitativi delle comunità di riferimento, rispetto alle quali c’è bisogno di sgomberare il campo da alcuni equivoci che ci ricollegano direttamente alla vicenda di Roma»

Prego

«Fino a che continueremo a filtrare la nostra realtà sociale attraverso la categoria, in sé fuorviante, di straniero, le questioni saranno destinate a rimanere insolute. Quello alla casa è un diritto che chi non è razzista riconosce come universale, senza fare differenza tra chi è cittadino e chi non lo è. Viceversa, simili distinguo presuppongono una negazione generale dei diritti dello straniero, impedendo di vedere che il problema non è la nazionalità dell’occupante abusivo, ma l’abuso in sé, unito ad una carenza di progettualità in materia di politiche abitative. Per di più, distogliendo l’attenzione dalla vera questione, sono le istituzioni per prime a fare discriminazioni, in qualche modo alimentando la nostra intolleranza».

Insomma: noi tolleriamo l’abuso in base a chi lo compie. L’italiano può, il migrante no. Del resto, anche nella nostra realtà cittadina, quasi si giustifica chi occupa un alloggio popolare, pur non avendone diritto, dando per scontata una sua condizione di bisogno

«Esatto. Il principio alla base delle polemiche di questi giorni è: sono stranieri e occupano le nostre case. Se, di contro, l’abusivo è un italiano, la violazione di legge – perché di questo si tratta – viene decisamente tollerata. Ed è la stessa norma che, con la sua logica di fondo, in qualche modo alimenta una simile visione, prevedendo, ad esempio, escamotage come il riscatto dell’alloggio occupato, magari inserendosi nello stato di famiglia di chi ne ha effettivamente titolarità. Ma fino a che non saranno le istituzioni a dare risposte complessive in termini di politiche sistematiche, prescindendo da visioni limitanti come quelle connesse al principio di nazionalità, il problema sarà destinato a permanere con tutto il suo portato di potenziale conflittualità sociale».

Grazie professoressa

«A lei»

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