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CoP21 verso la conclusione: i nodi da sciogliere e i possibili esiti

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Alla conferenza internazionale sul clima di Parigi si entra nella fase decisiva: è l’ultimo giorno dei negoziati e molti punti cruciali sono ancora da risolvere per arrivare all’accordo finale, il Paris Outcome. In un’analisi di Lorenzo Ciccarese le questioni da affrontare e le posizioni in gioco.

Agli inizi della COP21 dalle pagine di QualEnergia.it ho espresso un cauto ottimismo sulle possibilità che a Parigi sia approvato entro domani sera un accordo che obbligherà legalmente i Paesi a elaborare e presentare i piani di riduzione delle emissioni di gas serra, a garantire trasparenza internazionale nella redazione dei piani e nella verifica degli obiettivi raggiunti, a definire un percorso verso la de-carbonizzazione (zero emissioni da fonti fossili) della società entro la fine del secolo in corso.

Lo stallo e la nuova bozza

Purtroppo, nei primi dieci giorni di dialogo le trattative si sono arenate su una serie di punti che rischiavano di portare al crollo della conferenza.  Mercoledì 9 dicembre, per ridare vigore al negoziato, il presidente della COP21 e ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, ha presentato una nuova bozza negoziale di 29 pagine, nel tentativo di superare i dubbi e gli scetticismi ancora presenti.

Dal giorno di apertura della COP21, quando i capi di stato e di governo hanno trovato sui tavoli una bozza di accordo di 54 pagine (e centinaia di pezzi tra parentesi quadre), ridotta a 42 dopo una settimana di colloqui, molti progressi sono stati fatti. Eppure molte divergenze tra le parti restano, alcune critiche.

I punti critici da risolvere: le responsabilità differenziate

La prima (all’articolo 3 della bozza) è il rispetto del principio delle responsabilità comuni ma differenziate (differentiation nel gergo della COP21) rispetto all’accumulo dalla rivoluzione industriale a oggi delle emissioni di gas serra, nonché alle capacità di intervenire per ridurle.

Dalla prima COP a quella in corso, la questione della differentiation è stata tra le più controverse, anche perché incrocia tutti i cardini dell’accordo che si tenta ora a Parigi: la mitigazione, l’adattamento, la finanza, la trasparenza. Il Protocollo di Kyoto, che scadrà nel 2020, aveva riconosciuto questo principio, avendo imposto a 38 Paesi industrializzati (Annesso I) di ridurre il proprio livello di gas-serra ed escludendo tutti gli altri Paesi (non-Annesso I) da impegni di taglio alle emissioni.

Paesi in via di sviluppo contro paesi ricchi

Molti Paesi in via di sviluppo vorrebbero mantenere anche per il dopo-Kyoto questa dicotomia tra Paesi industrializzati e non industrializzati. Per giungere a un accordo, sicuramente si dovrà abbandonare questa differenziazione rigida.

I Paesi sviluppati sostengono che già adesso il concetto di Intended Nationally Determined Contributions (INDC), ossia la dichiarazione d’impegno a ridurre le emissioni che ogni nazione ha fatto prima di arrivare a Parigi, implica un auto-differenziamento e che già questo è sufficiente.

La possibile mediazione

L’annuncio dell’accordo del 2014 USA-Cina aveva aggiunto la formula “alla luce delle diverse circostanze nazionali” al principio delle responsabilità comuni ma differenziate ed è probabile che questa formula sarà ripresa nell’accordo finale di Parigi.  I Paesi in via di sviluppo considerano la formulazione troppo generica e non sufficiente a soddisfare le loro richieste.

Una mediazione potrebbe essere quella di inserire un riferimento supplementare alla differenziazione d’impegno tra le nazioni ricche e povere in specifici articoli dell’accordo, per esempio in quelli in materia di mitigazione e di trasparenza.

Il limite entro cui fermare il global warming

La seconda grossa questione da risolvere riguarda il limite da porre al riscaldamento globale e alla de-carbonizzazione a lungo termine. Nel gergo dell’UNFCCC la questione ha preso il nome di ambition. A Copenaghen, i Paesi avevano condiviso l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a non più di 2°C rispetto all’era pre-industriale.

Ieri, dopo la diffusione della bozza dell’accordo, almeno 100 Paesi (inclusi gli USA ed esclusi Cina, India, Sud-Africa e Brasile) vogliono nell’accordo un chiaro riferimento a un limite a 1,5°C, che gli scienziati ritengono possa dare maggiori garanzie di sopravvivenza alle nazioni insulari e rivierasche. Vi è un diffuso – ma non universale – sostegno all’idea di integrare quest’obiettivo a quello della de-carbonizzazione di lungo termine, ribadito pure in occasione dell’ultimo incontro del G8.

Molti Paesi vorrebbero includere l’obiettivo di de-carbonizzazione già nell’accordo di Parigi. Se un consenso non potrà essere raggiunto in tal senso, un eventuale ripiego sarebbe di includere l’obiettivo della de-carbonizzazione in una specifica decisione della COP, ma non nell’accordo di Parigi. Questa soluzione darebbe però all’obiettivo uno status giuridico e politico minore e soprattutto non rispecchierebbe il monito che viene dalla scienza.

Impegni vincolanti e da aggiornare periodicamente?

Altra questione: includere o no nell’accordo di Parigi un impegno per tutti i Paesi adimplementare i loro INDC dichiarati? Una questione centrale nei negoziati è stata quella di stabilire se gli INDC rappresentano un impegno vincolante o meno.

Alcuni Paesi, pur puntando a rendere giuridicamente vincolanti gli INDC, protendono per un accordo che non impegni espressamente i Paesi a raggiungere i loro INDC (distinguendo in tal modo l’accordo di Parigi dal Protocollo di Kyoto). Altri, tra cui l’Unione Europea e diversi Paesi in via di sviluppo, desiderano includere unimpegno vincolante all’attuazione di INDC. Questo ha portato ad una battaglia sulle formule: un dovere ad attuare piuttosto che un obbligo a realizzare, un obbligo legato al comportamento ‘verso’ le riduzioni di gas-serra, piuttosto che al risultato per sé.

Riduzioni della CO2 “commerciabili”

I meccanismi di cooperazione e di mercato, come lo scambio delle emissioni, erano una caratteristica centrale dell’architettura del Protocollo di Kyoto (ed espressamente criticata dall’enciclica papale Laudato si). Anche se l’accordo di Parigi non stabilirà obiettivi giuridicamente vincolanti di taglio alle emissioni, esso potrebbe includere l’eventualità che gli Stati possano attuare le loro INDC in cooperazione, per esempio attraverso i trasferimenti internazionali di “risultati di mitigazione”.

Per garantire che i trasferimenti internazionali non compromettano l’integrità ambientale dell’accordo, questo dovrebbe stabilire un meccanismo credibile e trasparente per evitare che le riduzioni delle emissioni siano registrate due volte.

Al momento della presentazione dei propri INDC molti Paesi hanno previsto trasferimenti internazionali di crediti di emissioni. È probabile quindi che l’accordo di Parigi possa autorizzare l’uso dei trasferimenti tra Paesi per implementare i loro INDC.

Adattamento trascurato?

Rispetto al tema dell’adattamento, i Paesi in via di sviluppo ritengono che esso sia stato a lungo ritenuto un parente povero della mitigazione. Da qui la richiesta di considerare un obiettivo globale per l’adattamento, in parallelo a quello che sarà adottato per la mitigazione, che potrebbe essere utilizzato per valutare l’adeguatezza di sostenere gli sforzi di adattamento fatti dai Pvs.

I Paesi africani, i piccoli Stati insulari e altri Paesi particolarmente vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici sono stati molto attivi per affrontare la questione“perdite e danni” dovuti al cambiamento climatico e in particolare agli eventi climatici estremi (uragani, alluvioni, siccità prolungate, ecc.) e reclamano l’inserimento d’uno specifico paragrafo nell’accordo finale.

Sugli aiuti finanziari posizioni lontanissime

Insieme a differentiation e ambition, il tema degli aiuti finanziari (finance, articolo 6 della bozza) è stata la questione più critica e più discussa dalla conferenza di Parigi.  A oggi rimane ancora un enorme divario tra le aspettative dei Paesi in via di sviluppo e gli impegni  dei Paesi donatori.

Con l’accordo di Copenaghen i Paesi sviluppati si erano impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno, entro il 2020, a favore dei Paesi in via di sviluppo per attività di lotta ai cambiamenti climatici. Un recente rapporto dell’OCSE ha stimato che sono stati mobilitati 62 miliardi di dollari nel 2014 e 52 miliardi nel 2013.

I Paesi in via di sviluppo sostengono che il principio di “progressione”, che si applica in molti Paesi nel contesto della mitigazione, dovrebbe applicarsi anche ai finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo. Pertanto, ogni successivo round di finanziamento per il clima dovrebbe essere progressivamente più ambizioso (e generoso).

Il problema della trasparenza

Un nodo ancora da risolvere riguarda i requisiti minimi di trasparenza del reporting e della verifica (transparerency). I Paesi in via di sviluppo hanno sempre mostratocontrarietà agli obblighi di reporting e di verifica della contabilizzazione delle emissioni e di rispetto degli impegni.

Fino ad ora, il negoziato climatico ha cercato di venire incontro a queste richieste istituendo due diversi standard per il reporting e la verifica degli impegni di riduzione delle emissioni: un sistema più stringente di valutazione e revisione internazionale per i Paesi sviluppati e un’analisi più lieve (International Consultation and Analysis, ICA) per i Paesi in via di sviluppo.

Nel corso dei negoziati di Parigi, i Paesi sviluppati hanno tentato di uniformare i requisiti di trasparenza, ma hanno trovato l’opposizione dei Paesi in via di sviluppo. La questione è se le disposizioni in materia di trasparenza considerate accettabili da parte dei Pvs possa soddisfare la soglia minima pretesa dai Paesi sviluppati.

Verso la conclusione

La seconda versione della bozza rilasciata nella serata di giovedì 10 dicembre (dopo la stesura di questo articolo, ndr), la penultima dell’accordo, che rispetto a quello distribuita il giorno prima corregge le questioni linguistiche e legali. A questo punto Laurent Fabius, i ministri e i capi di stato e di governo di quasi 200 nazioni hanno a disposizione poco più di un giorno per giungere a un accordo, già denominato Paris Outcome.

Intanto l’UE ha fatto sapere di non aver gradito la rimozione dalla bozza di un riferimento alle emissioni legate al trasporto internazionale aereo e marittimo (di cui nessuno al momento risponde) e la Russia ha detto che l’unico modo per giungere a un accordo è di ri-negoziare il testo (di 29 pagine) riga per riga.

linl all’art.

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